Sta suscitando uno dei classici dibattiti estivi, quando le grandi questioni sono in vacanza e per riempire i giornali tocca afferrarsi alle piccole, la vicenda di Alzain Tareq, la nuotatrice del Bahrein di soli dieci anni che scenderà in vasca per difendere i colori del suo Paese ai mondiali di nuoto di Kazan. Lei è tranquillissima: «Io sono la nuotatrice più veloce della squadra del Bahrain». Che problema c’è? «Bisogna vedere quanta libertà o quanta pressione da parte dei genitori e dei parenti ha – ribatte l’allenatore della squadra tedesca, Henning Lambertz – Penso che una ragazzina di dieci anni è meglio che giochi al parco piuttosto che essere in una Coppa del Mondo». Chi ha ragione? Ilsussidiario.net mi ha chiesto di dire la mia, e ci provo.
Sono abbastanza vecchio da ricordarmi la sensazione che fece Nadia Comaneci quando all’età di quattordici anni sbalordì il mondo ai giochi di Montreal. Sono abbastanza vecchio da aver fatto in tempo ad andare e tornare da scuola da solo, senza mamme o parenti autorizzati come da protocollare elenco a venirmi a prendere. Il primo dei miei figli aveva sette anni, aveva bisogno di cure dall’otorino, andavo a prenderlo all’uscita da scuola, lo portavo a un ambulatorio nel centro di Milano, poi io andavo a lavorare non lontano da lì e lui saliva su un autobus che arrivava alla periferia dove abitavamo; i primi due giorni è andato a prenderlo alla fermata mia moglie, poi lui ha detto tutto fiero: «la strada la so, posso tornare a casa da solo», e così ha fatto.
Sono in vacanza in un meraviglioso paesello fra le colline boeme, il nostro albergatore – ormai, dopo anni di frequentazione, amico – mi ha portato tempo fa a ripercorrere la strada che lui faceva per andare e tornare da scuola: un’ora fra i boschi, da solo, estate e inverno. Tempo fa – non ho il riferimento esatto sottomano, se a qualcuno interessa lo recupero – ho letto su Internazionale di una ricerca di due studiose di un’università californiana, che documentava come i bambini di una certa zona andina a sei anni fossero responsabili, consapevoli dei compiti che toccano loro e capaci di svolgerli, mentre i loro coetanei californiani erano viziati, capricciosi, tirannici. Alain Finkielkraut, ne L’imperfait du présent (salvo errori, non mi risulta tradotto in italiano), ha pagine memorabili sulla “tirannia dei fanciulli”, sulla devozione che il Novecento ha tributato ai bambini, col risultato di allevare generazioni di imbelli. Recentemente mi è capitato di parlare con una mia ex alunna di quando, mille anni fa, insegnavo alle elementari, e mi ha rivelato la delusione del suo primo giorno di scuola, quando lei, tutta eccitata, era lì per imparare a leggere e a scrivere, e io l’avevo fatta disegnare.
I bambini sono grandi. Perlomeno vogliono diventare grandi. Grandi in tutti i sensi. Mi ha folgorato, qualche settimana fa, il video di Miriam (clicca qui per vedere), una bambina irachena di dieci anni (guarda la coincidenza), che con una lucidità che le invidio giudica la situazione in cui vive. I bambini vogliono essere trattati da grandi, e se li trattiamo da grandi lo diventano. In tutti i sensi. La cultura in cui siamo immersi, invece, vuole il contrario. Vuole che gli uomini rimangano piccoli (in tutti i sensi). L’ideale del potere è un popolo di bamboccioni, preoccupati solo di non perdere i loro giochini (la macchina, la moto, le vacanze, il telefonino, metteteci dentro tutto quel che volete, lo diceva già sant’Agostino: «mi piaceva il gioco e ne ero punito da chi, a buon conto, non si baloccava meno di me. Senonché i balocchi degli adulti sono chiamati affari, mentre quelli dei fanciulli, per quanto simili, sono puniti dagli adulti»).
A me che una bimba di dieci anni sia capace di sacrificio, sia fiera di eccellere, sappia che la vita è una sfida in cui bisogna giocarsi fino in fondo, esalta. Come mi esalta Miriam e la sua lucidità nel giudicare la sua situazione. Mi esaltano e mi interrogano: sarò capace di tirar su così i ragazzi che ho davanti?