“Buona domenica, e buon pranzo!” è l’invito abituale del papa dopo l’Angelus festivo alla folla che si assiepa in piazza San Pietro, e che segue da casa le sue brevi, dense omelie dalla finestra del palazzo Apostolico. Qualcosa di più che un saluto beneducato, e anche di una cordialità che è consuetudine di Francesco: la compartecipazione alla vita di tutti, la sua aderenza solida alla realtà, che vive di tanti momenti e abitudini quotidiane, ma non scontate, non indifferenti. Buon pranzo!,  augura il papa dopo aver proposto e riflettuto sulla parola del Vangelo, come ogni buon parroco dovrebbe fare, come un padre che la spiega pazientemente ai figli distratti. E non c’è distinzione, così come non faceva distinzioni Gesù, che parlava del Padre mangiando e bevendo coi suoi amici, che aspettava che Marta e Maria mettessero su tavola, mentre svelava ai presenti il significato del vivere. Che chiedeva un pezzo di pesce arrostito, per condividere con loro la sua Resurrezione, Dio in Cielo ma non disincarnato, mai distante da quell’umanità che aveva scelto ed esaltato assumendola su di sé, beatificando tutti i suoi aspetti: il sonno, il lavoro, la preghiera, la compagnia, il dolore, la bellezza dei paesaggi, i rimproveri e le carezze — chissà — il gioco, le risate, i silenzi. Il cibo, acqua, vino, pane, mensa. 



Buon pranzo, e ha appena parlato di martiri, il papa, ancora una volta, scandendo bene le parole, perché alla piazza sotto il sole non sfuggano: martiri oggi, che danno la vita per testimoniare la fede. Perché preghino per noi, perché abbiamo a mente come lume il loro coraggio, la loro netta dedizione a Cristo. Non c’è stacco, nel passare dalla tragedia alla letizia, dallo strazio di fratelli perseguitati, poveri, feriti e piagati dall’odio all’immaginare le tovaglie che si stendono, i profumi che arrivano dalla cucina, l’appetito che si stuzzica mentre si attende di sedersi insieme, per gioire di quel che è dato. Buon pranzo, dice il papa che non fa che ricordare chi non ha cibo, non ha casa, non ha pranzi da sperare e raccontare. E non è trascuratezza, ma la molla a ringraziare, per il pranzo che hai, per la casa che hai, per le piccole cose che danno gusto, non solo sentimentale, alla vita. 



Buon pranzo, e ci si muove più leggeri, certo che il buon Dio benedice il sugo preparato al mattino, il lavoro ben fatto di mani esperte di nonne, madri, sorelle. Non solo buona educazione, che pure è merce sempre più rara, ma un modo di intendere lo scorrere del tempo, e le priorità dell’umano. 

Prima di tutto, la festa: la domenica non è un giorno qualunque, è dies Domini, e se pure manteniamo le preoccupazioni e l’impegno del fare, “ogni cosa ha il suo tempo, la sua ora sotto il sole”, ammoniva il Qoelèt, e non è solo un comandamento, quello di santificare le feste, è uno stile di vita, una precisa scala di valori. 



Se è il giorno di Dio, bisogna che sia diverso, speciale. Anche solo per la cura nel preparare il pranzo, nella decisione di unirsi, per consumarlo insieme. Ecco il sottinteso: la famiglia. Non è un buon pranzo se si è da soli. Piccola o grande che sia, originaria o creata da una comunità di amici, la famiglia è il pilastro che ci regge, e la sua tavola permette riflessione e riconciliazione, sguardo attento sul mondo, domande e consiglio, tenerezza e calore di affetti. 

Conosco lo scetticismo: famiglie così non esistono più, domeniche così non esistono più, cose d’alti tempi. Se la nostalgia immalinconisce, e non apre al domani, la memoria è doverosa e buona, e va preservata. Non è retaggio dell’antico celebrare la domenica e credere nella famiglia, ma coscienza che così si preserva l’umano, che così si vive più felici. Ho in mente le mie nonne, semplici famiglie piemontesi, come Bergoglio, ma so che ogni pezzo di mondo può descrivere gli stesi dagherrotipi che vorrei tramandare ai miei figli. La domenica si preparavano gli agnolotti, con certosina cura, o le frittelle di patate, per far piacere ai bambini. Si tirava fuori il rosolio, e dopo Messa si portava a casa un pacchettino di paste. Altro che il pentolino con cui si pranzava al lavoro, coi resti riscaldati della sera prima, tutti i giorni della settimana. Bisognava una volta essere re e regine. La domenica toccava dare un tocco particolare, per quanto si fosse poveri, per quanto si fosse prostrati dalle cure o dalle prove del vivere. 

Bergoglio è uomo d’altri tempi, ad augurare momenti così, a pensare famiglie così, o ha a cuore l’uomo vero, che si perde, si frastorna nello scorrere sempre uguale dei tempi, saturo sempre di superfluo e connessioni volatili e false, svogliato consumatore, incapace di gusto, di stupore, di gratitudine? Buon pranzo! E si vorrebbe darsi da fare per renderlo unico e memorabile, quel pranzo. Pr ritrovare pezzetti di umanità perduta. 

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