Per tutti a Forlì S.V. era un esperto e affidabile promotore finanziario. Professionisti, imprenditori, anche notai, come anche modesti pensionati, e poi amici e parenti gli avevano dato da gestire notevoli somme: utili economici ma anche risparmi di una vita. Non avranno indietro un solo euro perché S.V. non li ha messi a frutto come faceva credere, ma li ha bruciati tutti nel gioco d’azzardo. E sono la bellezza di 9,4 milioni. 



La ludopatia, si sa, non perdona. La vicenda di quest’uomo colpisce perché i soldi che ha buttato via sono proprio tanti, oltre che non suoi; e perché per seguire il suo demone, impinguare i casinò dove aveva perso e aggirare le norme antiriciclaggio, S.V. ha messo in piedi un sistema fraudolento molto ma molto raffinato. Insomma ha sacrificato sull’altare del dio azzardo tutte le risorse intellettuali e professionali, oltre che economiche, di cui disponeva, per rovinare sé, la famiglia, gli affetti, le relazioni sociali: in definitiva per perdere la vita. 



La cosa appare così irragionevole, e ancora più perfida della tossicodipendenza e dell’alcolismo, da sembrare addirittura impossibile, o almeno una rara eccezione. No, non è così: in Italia la ludopatia (per alcuni è meglio azzardopatia) riguarda 800mila persone, che sono circa l’1,5% della popolazione. Quanti hanno studiato questa patologia concordano sul fatto che il vero scopo di chi punta ai tavoli del casinò o infila quintalate di monete da un euro nelle fauci delle slot machine, la sua vera soddisfazione, non è la vincita ma l’azzardo stesso come estraniazione dalla realtà e sfida alla sorte, così che diventa irrefrenabile il bisogno di continuare a giocare e di trovare sempre più soldi per poterlo fare, a costo di una vita di menzogne e imbrogli.



Il primo pensiero che viene è questo: come è spaventosamente potente il bisogno di una soddisfazione totale, al punto che uno va magari a cercarla sempre più ad di là del limite, del ragionevole, al di là del reale stesso, come in una folle allucinata avventura di fronte alla sorte. Il fato è sin dall’antichità la forza misteriosa e suprema, con cui l’uomo non può però avere — a differenza poniamo del Dio di Abramo — alcun rapporto, alcun dialogo. Il bisogno di soddisfazione è un bisogno infinito che non può non aver risposta. L’uomo è fatto così, e la tentazione di farsi un idolo e consegnarvisi è vecchia come il mondo. Nuove sono semmai tecnologie e reti digitali che rendono l’idolo più capillarmente pervasivo che mai. Ma non è sbagliato il bisogno: è sbagliato l’idolo.

Il secondo pensiero è legato al fatto che S.V. ha trovato in fondo al proprio baratro una scintilla di intelligenza e di libertà: per riconoscere il proprio disastro e perciò per chiedere aiuto. Lo ha fatto consegnandosi agli agenti di sicurezza come per essere costretto ad accettare l’aiuto. Da solo, è chiaro, uno non ce la fa. E davanti alle macchinette mangiasoldi, al poker via internet, o ai dadi sul tappeto verde l’individuo è sempre e necessariamente solo come un cane. Ma, come nella parabola del figliol prodigo, la realtà è stata la prima alleata di un individuo che chiunque darebbe per perduto.

Il terzo pensiero riguarda la colossale distrazione con cui in genere ci figuriamo che una vita buona, o sufficientemente buona,  con la sue dosi quanto basta di soldi, affetti, conoscenze, un qualche hobby, magari un’opera buona, e quindici giorni al mare, sia un’ovvietà e non un dono. Colossale, tragico errore.

Da ultimo: che l’individuo abbia le sue risorse e la sua responsabilità è vero, ma è altrettanto vero che la diffusione dei giochi d’azzardo ha avuto una crescita esponenziale (una media del 20% all’anno negli ultimi 20 anni), provocando una crescita altrettanto esponenziale delle ludopatie. Siamo arrivati a spendere 90 miliardi di euro all’anno, cioè il 5% del Pil, una cifra enorme che quasi sfiora la spesa sanitaria italiana. Molti avevano sostenuto che per ridurre il gioco, come la droga, bisognava liberalizzare. Lo si è fatto, ed è evidente che hanno sostenuto una fesseria. Al fisco sono andati 8 miliardi nel 2013, meno che nel 2012. C’è chi dice che il fisco dovrebbe calcare di più la mano, e che così la gente giocherebbe meno. Non ci credo. Fanno la pubblicità di questi giochi, che si vince a gogò, e avvertono in fondo di non esagerare perchè può far male: massimo dell’ipocrisia. Ogni fumatore che si rispetti (e il sottoscritto lo è stato dal 1965 al 2008) si è sempre fatto un baffo della minacciosa scritta Nuoce gravemente alla salute posta sul pacchetto delle bionde. Non certo da esperto, ma da semplice ex fumatore, mi piacerebbe uno Stato che il gioco d’azzardo lo limitasse anziché favorirlo, non saprei se più per timidezza verso gli unici che ci guadagnano, cioè i gestori nazionali e internazionali, o per inveterata consuetudine a raschiare tasse dal fondo di tutti i barili possibili e immaginabili.