L’AVANA — Il “misionero” è arrivato. Cuba ha accolto quello che per tutti è Francisco, l’amico, il pontefice argentino, il Papa che parla la stessa lingua e conosce miserie e tribolazioni dell’isola, l’uomo che ha messo faccia e parola a garanzia del nuovo patto con gli yankees. Bergoglio è qualcosa di più di un ospite gradito, è lo strumento della provvidenza in una fase cruciale per il futuro del governo a doppia firma castrista. Colui che raccogliendo il grido inascoltato dei suoi predecessori sull’inutilità dei ricatti economici e delle politiche strangolanti dell’imperialismo americano, può davvero compiere il miracolo, liberando il popolo cubano dall’embargo. 



La retorica rivoluzionaria e ancora tutta lì, le parole si rincorrono nel torrenziale discorso di Raul, l’uomo vecchio del regime che ha dischiuso Cuba, lasciando intravvedere un’altra vita possibile. Eppure oltre la fanatica difesa di un sistema stremato, l’enfasi e l’orgoglio che vengono da anni di resistenza alle tentazioni del capitalismo, si percepisce la pressione degli eventi recenti. A differenza degli ultimi due pontefici, Bergoglio è in una paese che ha iniziato a riassaporare il gusto della speranza, senza perdere in onore. Il fraseggio socialista più che a riempire le colonne del foglio di Stato, la Granma, serve ad allontanare il timore che questa volta ciò che a lungo si è desiderato possa davvero realizzarsi.



Non è facile rinunciare al comodo alibi fornito per decenni dall’intransigenza americana, e per qualcuno sull’isola sarà persino doloroso scoprire che si può vivere rinunciando all’autarchia. Certo non per i poveri, quel popolo affamato che ha annegato le sofferenze nella solarità caraibica. In fondo sappiamo bene che Francesco è a Cuba proprio per i cubani, per sostenere un processo che tutti si augurano sia irreversibile, concedendo a tutti, non solo ai cattolici, spazi di libertà. 

Nel suo discorso all’arrivo, ha ricordato i legami di cooperazione e amicizia tra governo e Chiesa, quella comunità che non ha mai abbandonato la gente di Cuba, aiutata da una sapiente regia diplomatica, che in 80 anni di relazioni ininterrotte ha mantenuto un contatto con il governo di Castro anche nei momenti più difficili. E’ la stessa diplomazia che ha messo a segno la firma dell’accordo tra le due delegazioni, cubana e statunitense, dentro le mura vaticane, alla presenza del Segretario di Stato, come rivelato da mons. Angelo Becciu in un’intervista a TV2000. E che oggi continua a lavorare per la fine dell’embargo sul piano internazionale, ma anche per assicurare spazi di libertà dentro l’isola. 



Lo stesso Francesco ha chiesto per la Chiesa mezzi e spazi necessari per far giungere l’annuncio evangelico fino alle periferie esistenziali della società. Tradotto nel sottile gioco delle parti, la squadra della Segreteria di Stato, schierata in forze all’Avana (al seguito del pontefice oltre al Segretario di Stato Parolin e al Sostituto, mons. Becciu, è presente anche il ministro degli esteri vaticano, mons. Paul R. Gallagher), spera di portare a casa risultati concreti, e, come già accaduto per le precedenti visite dei pontefici, incassare piccole concessioni. 

In particolare la Chiesa cubana vorrebbe poter contare su passaggi televisivi, su una maggiore visibilità, per poter agganciare giovani e lontani. Insomma una maggiore libertà di espressione. 

Il Papa nelle sue prime parole non ha certo irritato il governo che lo ospitava, sensibile alle denunce di violazione dei diritti, ma ha fatto capire che tacere non vuol dire appiattirsi sulle posizioni dell’interlocutore. E mentre da Cuba assicurano che potrebbe non essere escluso un incontro informale tra alcuni dissidenti e il pontefice, con il tacito assenso della nomenclatura cubana, si intuisce, dietro la complessità protocollare, una strategia che mira ad aprire Cuba al mondo — come voleva Giovanni Paolo II —, ma soprattutto a Cristo. Francesco, all’aeroporto, ha citato per ben due volte José Martí, insieme all’altro padre della nazione cubana, il cattolico e venerabile padre Varela, l’indipendentista che molti vorrebbero vedere sugli altari. Ha parlato poco, andando all’essenziale, definendo l’isola “chiave” tra nord e sud, est e ovest, punto di incontro oltre le “barriere degli istmi e le barriere dei mari”, evocando la normalizzazione delle relazioni con gli Usa solo per elogiare la cultura dell’incontro, del dialogo, della pace. 

Un Francesco che è piaciuto e che per essere consacrato nuovo idolo caraibico deve solo attendere l’abbraccio con il Líder máximo, il grande vecchio, ormai malato e stanco, ma ancora capace con la sua sola presenza di determinare il successo di un evento. Oggi molti confermano il non programmato incontro nella casa/clinica di Fidel, ieri il pensiero affettuoso, durante il discorso al fratello Raul. A Benedetto XVI, il mitico comandante chiese libri di spiritualità, per una vecchiaia segnata dalla malattia e forse dai fantasmi del passato. Con Francesco tornerà a parlare di quel Dio che ha abbandonato dopo gli anni di formazione cattolica? Ancora una volta un gesuita attraverserà la sua strada.

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