— Non so cos’abbiano capito i 535 membri del Congresso riuniti per la storica occasione, la prima volta di un Pontefice invitato a portare il suo messaggio al Capitol, al cuore della politica americana. Ognuno capisce quel che vuole, lo sappiamo bene. Quelli che hanno applaudito numerose volte e a lungo, spesso con standing ovations, e quelli — pochissimi in verità — che se ne sono rimasti seduti ed immobili. Dopo un’attesa segnata da vaghe speranze e molti timori, tremori, pregiudizi, preconcetti e tutte le possibili riduzioni ideologiche di questo mondo, il Papa ha parlato. E lo ha fatto da “americano con gli americani”, immedesimandosi profondamente con questa nazione e la sua storia. Il suo saluto iniziale alla “terra dei liberi e casa dei valorosi” (parole del nostro inno nazionale) ha subito schiuso la porta all’ascolto. Se dovessi provare ad individuare il nocciolo della questione direi che Francesco si è permesso di dire a questi rappresentanti del popolo qual è il loro compito, da dove viene e dove è giusto che porti. Il Papa ci ha detto cos’è la politica, ricordandoci cos’è l’uomo che la politica è chiamata a servire. Partendo da Mosè — sintesi di guida patriarcale e legislativa del popolo e di “quel legame con Dio che solo può garantire il riconoscimento della dignità trascendente dell’essere umano” — il Papa ci ha fatto cavalcare la nostra giovane storia attraverso quattro testimoni: Lincoln con il suo impegno per la libertà, Martin Luther King con la sua lotta per libertà ed eguaglianza nella pluralità, Dorothy Day paladina della giustizia sociale e dei diritti delle persone, Thomas Merton capace di dialogo con tutti perché spalancato a Dio. Per restare fedeli a questa storia occorre continuare ad ascoltare “la voce della fede”. Altra strada non c’è.
Francesco ha portato “la voce della fede” su tanti temi scottanti che agitano questo paese: la famiglia (“minacciata forse come mai in precedenza dall’interno e dall’esterno. Relazioni fondamentali sono state messe in discussione, come anche la base stessa del matrimonio e della famiglia”); vita (“è nostra responsabilità proteggere e difendere la vita umana in ogni fase del suo sviluppo”, “sostenere a vari livelli l’abolizione globale della pena di morte”); conflitti armati (“è nostro dovere affrontare il problema e fermare il commercio di armi”); immigrazione (“Noi, gente di questo continente, non abbiamo paura degli stranieri, perché molti di noi una volta eravamo stranieri”); povertà (“desidero incoraggiarvi a non dimenticare tutte quelle persone intorno a noi intrappolate nel cerchio della povertà”); la nostra terra (“il corretto uso delle risorse naturali”).
Francesco non ha detto nulla che non potesse essere capito. Ha parlato dandoci testimonianza della sua libertà nella verità. Il tutto racchiuso nella citazione del Vangelo di Matteo, la “Regola d’Oro”, come l’ha chiamata: “Fai agli altri ciò che vorresti che gli altri facessero a te”. E’ partito da ciò che al fondo lo lega a quei cinquecento sconosciuti per poter aprire, per “poterli” aprire ad un dialogo teoricamente impossibile ed offrire un respiro nuovo al sogno americano, rimettendolo all’opera. E anche se non posso sapere che cosa ognuno abbia capito, quella standing ovation che lo ha interrotto sul “Fai agli altri…” mi è parsa come il sobbalzo di chi, colpito al cuore da un inatteso raggio di speranza, dice “è vero! è proprio così! Io sono questo!”.
Domani è un altro giorno. Dalle lacrime di commozione di Boehner, portavoce del Congresso, a quelle trattenute a stento di Joe Biden, vice presidente, ai pensieri dell’ultimo di quei 535, si tornerà al lavoro legislativo. Speriamo che resti traccia di quel raggio di luce della “voce della fede”. Quello stesso raggio che ha illuminato in un radioso sorriso persino il volto dell’altrimenti sempre cupo Obama.
Una Presenza che ci libera dalle nostre riduzioni. Ecco il dono che Papa Francesco sta facendo all’America. God bless the Pope. God bless America.