L’Anno Santo non è un’azione politica, anche se finisce inevitabilmente — come tutto ciò che occupa uno spazio nel mondo — per toccare la dimensione politica. Ma il modo in cui la tocca è speciale. 

Tutti prendiamo misure: prendere misure è il nostro modo di far politica, sempre: dall’educazione dei figli alla sicurezza sulle strade, dal rapporto con la moglie al destino dell’Europa. La gente chiede questo ai governanti: non chiacchiere, ma misure concrete. 



Ma l’Anno Santo è l’anno di una dismisura. Ci ricorda che, se alla base di tutte le nostre misure non c’è una dismisura, la nostra politica si riduce a un calcolo meschino. 

L’Anno santo non è un’azione della Chiesa come corpo politico, ma l’irruzione del metodo di Dio. Una bontà, una magnanimità senza pari. Non si perdona sette volte, ma settanta volte sette, cioè sempre. L’Anno Santo è l’irrompere del “sempre” (pensiero impensabile) nelle nostre azioni quotidiane.



Nella sua bellissima lettera a Mons. Fisichella, Papa Francesco sottolinea questa larghezza non come la propria (della serie “guardate quanto sono magnanimo”) ma come l’urgenza personale di Dio. Il tempo è breve, il deserto avanza, dobbiamo svegliarci. I nostri mari vomitano cadaveri di bambini siriani, libici, africani: e noi come ci pensiamo, cosa pensiamo di noi stessi, della civiltà che i nostri nonni hanno costruito?

Nella lettera, il Papa lancia un’esca e parla di amnistia: “Il mio pensiero va anche ai carcerati, che sperimentano la limitazione della loro libertà. Il Giubileo ha sempre costituito l’opportunità di una grande amnistia, destinata a coinvolgere tante persone che, pur meritevoli di pena, hanno tuttavia preso coscienza dell’ingiustizia compiuta e desiderano sinceramente inserirsi di nuovo nella società portando il loro contributo onesto”.



La prima frase è sulla giustizia: la limitazione della libertà di un uomo può essere un male necessario, ma è un male, e se è un male lo è per tutti. Giustizia non è fatta. Ora, l’amnistia è un istituto della nostra repubblica, ma non la si usa dal 1992, perché? Per ragioni culturali, perché l’idea che dei prigionieri vengano liberati non ci rallegra, anzi ci fa accapponare la pelle. 

La paura domina le nostre esistenze: paura per noi, per il nostro futuro, per i nostri figli, per il lavoro, per i soldi, paura delle insolazioni, delle inondazioni, delle meduse, paura di tutto. La paura limita la nostra libertà, ci chiude in una prigione di garanzie. 

Che bello, che consolazione quando qualcuno si muove nella direzione contraria. Se un uomo ha compreso il male che ha fatto, il suo apporto alla società può essere di vitale importanza in un mondo pieno di confusione, dove la parole “bene” e “male” sembrano non significare più nulla oltre l’utilità per sé e per i familiari. 

La mia prima reazione alla lettera del Papa e soprattutto a quella parola, “amnistia”, è stata di felice smarrimento. Non mi sono venuti in mente tutti i problemi connessi (come hanno fatto immediatamente i rappresentanti delle parti politiche, spesso tutori della paura e della viltà) ma ho tratto un respiro profondo, come se un’aria più fresca e pulita mi avesse investito.

Non ho pensato all’apertura delle celle e al possibile pericolo che ne deriverebbe, ma al vento di libertà che una simile idea porta per tutti. 

Non è una cosa per cattolici. Dio non è cattolico. Dio è Dio e basta, e i casi sono due: o c’è o non c’è. Ebbene, Dio c’è, e c’è per tutti. Lui non attende le nostre teorie corrette, i nostri programmi dettagliati: semplicemente, va in un’altra direzione. Le rivoluzioni si fanno così: mettendosi a camminare in un altro modo. 

E l’amnistia, oggi prevista dalla Costituzione, ammette questa possibilità di cambiamento di direzione. Il che è, francamente, straordinario. Come dire che una convivenza umana non è sana se alla sua base non ammette questa eventualità. 

Senza cambiamento infatti si muore — e lo si vede bene in questi giorni, dalla meschinità con cui l’Europa — patria di tutte le libertà, ma oggi nemica di ogni cambiamento — tratta la questione dei migranti. Viva perciò chi, come il Papa, sa scendere alle radici (laiche) della nostra civiltà, nata dal bisogno di libertà, di accoglienza e di perdono. Per tutti.