Il tema dell’utero in affitto è attualmente al centro del dibattito legato alle unioni civili. La stepchild adoption sembra diventata il vero spartiacque tra chi considera la legge Cirinnà una norma da adottare a scatola chiusa e chi invece intende mantenere ben distinti i diritti della famiglia rispetto a quelli delle unioni civili e i diritti delle coppie di fatto dai diritti dei minori. Tutelare in una coppia il diritto a prendersi cura l’uno dell’altro, ad abitare nella stessa casa e a restarvi anche in occasione di un lutto o di una eventuale separazione, contribuire al mantenimento della persona che verserebbe in difficoltà, in occasione di una rottura del legame affettivo che lega i due partner, sono tutti aspetti che è possibile leggere in filigrana nell’articolo 3 della nostra Costituzione. Ben venga quindi una norma che li disciplini, senza fare confusione rispetto agli articoli del codice civile sul matrimonio.



Ma i figli sono un’altra cosa, soprattutto se si tratta di una coppia omosessuale in cui il ricorso a partner esterni è d’obbligo e nel caso di una coppia gay diventa indispensabile ricorrere all’utero in affitto. La pratica dell’utero in affitto è particolarmente diffusa in Paesi poveri, come ad esempio il Nepal o l’India, ma si è diffusa anche in aree povere di Paesi ricchi come gli Usa. Secondo Jennifer Lahl, presidente del Center for Bioethics and Culture Network, le donne in America sono state intimidite e sfruttate dall’industria per la maternità surrogata, che anche lì va a caccia delle persone più povere per approfittarne. Sia che si tratti di donazione di ovuli o di spermatozoi, che di utero in affitto. Negli Stati Uniti la maternità surrogata è consentita in molti Stati dove leggi specifiche permettono di stipulare un regolare contratto con il quale, in cambio di denaro, una donna si impegna a portare in grembo uno o più figli non suoi.



Attualmente però questo tipo di industria, dopo aver convinto le donne a farsi carico della gravidanza, sta cercando di obbligarle ad abortire feti sani per una mera valutazione economica. E solo ora gli americani stanno cominciando a capire perché il Canada e tantissimi Paesi europei, asiatici e africani hanno vietato la maternità a pagamento. Non si possono trasformare le donne in allevatrici anonime e i bambini in prodotti da ordinare a catalogo. Alcuni anni fa una coppia australiana, che aveva fatto ricorso all’utero in affitto, avendo saputo che si trattava di un bambino Down, aveva imposto alla donna l’aborto, dichiarando esplicitamente che non aveva nessuna intenzione di farsi carico di un bambino con queste caratteristiche. Allora la donna si era rifiutata di abortire, dicendosi disposta a farsi carico del bambino, che sentiva come suo, nonostante in senso stretto non fosse suo.



Negli Stati Uniti è scoppiato recentemente il caso di Melissa Cook, donna incinta di tre gemelli per conto terzi.

Sollecitata dal cosiddetto padre intenzionale ad abortirne almeno uno o due, si è rifiutata di farlo. Il suo caso è finito davanti alla Corte suprema della California e ha riaperto negli Usa il dibattito su questo tipo di leggi che autorizzano una gravidanza delegata a pagamento. Melissa Cook ha chiesto che le vengano riconosciuti i diritti sui bambini che attualmente vivono nel suo utero. Melissa non ha affittato il suo utero a terzi: si è messa in gioco come donna a tutto tondo e ha scoperto un modo diverso di essere madre, ma pur sempre una maternità che non sacrifica i suoi figli a nessun titolo. Ci conferma che c’è un senso della maternità molto più forte e radicato almeno nei primi mesi di vita del bambino di quanto non lo sia il senso di una presunta paternità. Questi tre bambini sono in un certo senso carne della sua carne. Il problema che si pone ai giudici è del tutto inedito: una donna che affitta il suo utero può rifiutarsi di abortire quando ciò le sia richiesto dai genitori intenzionali? 

Melissa Cook non solo ha respinto la richiesta di “riduzione selettiva” arrivata dal padre intenzionale, ma ha anche fatto causa all’uomo. Secondo lei le motivazioni del padre sono legate non solo a possibili preoccupazioni economiche, ma anche ad un netto rifiuto a farsi carico dei tre bambini. Melissa si è rivolta alla Suprema Corte di Los Angeles perché ritiene che la legge californiana in materia di fecondazione assistita violi i diritti di uguale protezione garantiti dalla Costituzione. Tutti e tre gli embrioni impiantati nell’utero di Cook hanno attecchito e tutti e tre hanno diritto a vivere, abortirne uno o due significherebbe introdurre un elemento di discriminazione tra i bambini inaccettabile. La Cook sostiene di essere la madre legale dei tre gemelli e cerca di ottenerne i diritti parentali; chiede anche di non essere citata in giudizio per il rifiuto di abortire e dunque per l’inadempienza contrattuale.

Non sappiamo quale sarà il verdetto della suprema Corte di Los Angeles, ma il caso di Melissa Cook ci fa capire molte cose finora emerse ancora troppo poco nel dibattito italiano sulla stepchild adoption. Cose che potrebbero essere sintetizzate in questo modo: i figli adottivi e i figli dati in affido per la legge italiana contano su di una accurata selezione dei potenziali genitori, sottoposti ad attenta valutazione, prima di ottenere un patentino di idoneità, a garanzia del supremo interesse del bambino. Nel caso dell’utero in affitto, fase precedente ad ogni possibile stepchild adoption in una coppia omosessuale maschile, non c’è nessuna garanzia dell’idoneità della coppia. Si parla di genitori intenzionali, ma a quanto pare in alcuni casi concreti le principali intenzioni di questi genitori si concentrano sul fatto di volere un solo figlio e per di più sano. Si escludono bambini portatori di handicap, ma anche gemelli, tanto più se si tratta di tre gemelli. 

Ossia il cosiddetto genitore intenzionale resta ancorato al soddisfacimento dei suoi diritti individuali ed è pronto a rifiutare il bambino se non è all’altezza delle sue aspettative. Mentre la madre che ha portato in grembo il bambino, o i bambini, si conferma disponibile a farsene carico, perché il legame che si stabilisce tra di loro durante la gravidanza, ha una intensità superiore a quella del contratto “legale” sottoscritto con i genitori intenzionali, che alla prova dei fatti si mostrano inadeguati. Non c’è dubbio che il supremo interesse del bambino, il suo diritto alla vita, sia meglio tutelato dalla madre biologica, anche se l’ovulo iniziale non è suo. Ma è sua tutta la presa in carico del bambino, portandolo a diventare da embrione appena fecondato ed impiantato in un bambino capace di provare emozioni e di reagire agli stimoli ambientali, desideroso di comunicazione e di interazione con gli altri e dotato perfino di una certa autonomia.

La stepchild adoption in realtà si conferma come una pratica ben poco umana, in cui le sofisticate tecnologie che sono alla base delle tecniche di fecondazione e di trasferimento in utero considerano ognuno degli interlocutori – chi dona i gameti e chi accoglie l’embrione appena fecondato – come soggetti passivi. Il loro destino è nelle mani di un tecnologo, per altro non sempre medico, che parla di prodotto del concepimento, di utero affittato, evitando accuratamente di usare termini come bambino, uomo, donna, madre e padre. In realtà anche la dinamica della coppia in questa prospettiva pseudo-genitoriale si snatura, si fa oggetto da manipolare a cura di esperti rigorosamente estranei a tutte le implicazioni affettive ed emotive.

C’è però un aspetto che comunque non può essere ignorato, ed è quello che riguarda i bambini già nati: comunque siano nati, ora che esistono meritano un’attenzione particolare, proprio perché particolare è la loro condizione, che non potrà mai essere del tutto assimilata a quella di bambini nati in famiglia; in un contesto di affetti stabili, con un padre e con una madre, che se ne fanno carico accettandoli come sono: sani o malati; figli unici o gemelli… Proprio perché tutti i bambini meritano un’attenzione particolare da parte del legislatore, chiamato a farsi carico della diversità della loro condizione, allora occorre immaginare una legge ad hoc che tuteli i diritti dei minori, senza schiacciarli su quelli invocati dalle coppie omosessuali o in qualunque tipo di unione civile. La tutela dei loro interessi non può essere residuale rispetto alla affermazione dei diritti individuali di figure parentali a cui sono legati a titolo diversissimo. Occorre una legge ad hoc per i minori, ben diversa dalla Cirinnà; una nuova legge studiata attentamente e valutata criticamente senza fattori distorsivi che rispondono più ai bisogni degli adulti che non a quelli dei minori.