Ha destato stupore anche nei familiari di Lidia Macchia l’arresto di Stefano Binda, l’uomo accusato dell’omicidio della giovane varesina a distanza di 30 anni dall’accaduto. Anche per la famiglia di Lidia accettare una notizia del genere non è stato semplice ed è per questo che i cari di Lidia si stanno trincerando dietro un contegno ed una dignità esemplari, interrotti esclusivamente da qualche fugace dichiarazione. Un esempio di questa linea di condotta è stato fornito da Alberto Macchi, fratello di Lidia, che come riportato dalla versione online de “La Repubblica” ha dichiarato:”Su Lidia è stato detto tutto in questi anni. Io e la mia famiglia ora abbiamo bisogno di serenità: comunque il più bel ricordo di mia sorella è la lettera in cui parla del suo incontro con Don Giussani“. Nessuna parola dunque sull’uomo arrestato per l’omicidio, fatta eccezione per le dichiarazioni dell’avvocato Pizzi che nelle scorse ore aveva definito “addolorata” la mamma di Lidia, “anche perché l’accusato frequentava casa ogni tanto, anche se non era amico stretto di Lidia“.



L’arresto di Stefano Binda per l’omicidio di Lidia Macchi ha creato non poco stupore a Brebbia, il paese del varesotto dove l’uomo viveva. La Provincia di Varese ha raccolto alcune testimonianze dei brebbiesi. Il titolare del bar dove Binda andava spesso sottolinea di non poter che parlare positivamente di Stefano, dato che non ha mai fatto un torto a nessuno e non ha mai creato alcun problema. “Non posso credere che abbia commesso quanto gli viene contestato”, sottolinea l’uomo. Che aveva comunque un certo rapporto con l’arrestato, dato che insieme parlavano di diversi argomenti, dalla cultura allo sport. Binda viene descritto come una persona educata e gentile. Anche il sindaco di Brebbia, Domenico Gioia, è rimasto alquanto sorpreso da quanto accaduto, sottolineando come l’uomo partecipasse alla vita sociale del paese, dando anche una mano come volontario al festival Magre Sponde.

Nella svolta dell’omicidio di Lidia Macchi, con l’arresto del presunto assassino della ragazza di Varese ovvero il compagno di liceo Stefano Binda, potrebbe essere stata messa una pietra importante verso la soluzione di uno dei maggiori “cold case” italiani, forse il primo effettuato con le nuove tecniche del dna. Fu infatti il delitto efferato e di una brutalità incidente che vide per la prima volta l’utilizzo dell’esame del dna per cercare di trovare il killer della giovane ragazza. All’epoca però le capacità erano assai ridotte e infatti, se effettivamente il vero colpevole è stato identificato e arrestato, ciò è avvenuto solo tramite perizia calligrafica, mentre nuovi esami del dna verranno fatti in queste ore per provare a recupera quattro altro indizio. Insomma, un cold case, diviene tale se qualcosa nelle indagini è venuto meno, ma anche per altre cause non per forza imputabili agli inquirenti. In questo caso alcuni reperti fatti sparire e varie bolle mediatiche attorno al caso non hanno di certo aiutato alla soluzione. Siamo davvero al capolinea? Intanto possiamo vedere qui, ripercorso da SkyTg24, tutte le fasi di questo e di altri “casi freddi”: clicca qui per il video.

Quarto Grado, durante la puntata in onda su Rete 4, ha diffuso un comunicato a mezzo stampa interrogando il sostituto procuratore di Milano per il caso di Lidia Macchi. In questa sede è stato confermato che “la contestazione è di omicidio aggravato” ed è stato sottolineato che “trasmissioni come Quarto Grado hanno contribuito a risvegliare le coscienze e a sensibilizzare le persone”. Siria Magri, la responsabile di Quarto Grado e vicedirettrice di Videonews, ha raccontato a Tgcom24 gli sviluppi della vicenda che hanno reso possibile l’arresto dell’ex compagno di scuola di Lidia Macchi. Si deve infatti ad una puntata del programma incentrata sul caso di Lidia Macchi a far riaprire le indagini, fatto confermato dall’ordinanza di custodia cautelare per Stefano Binda, sospettato di omicidio. L’uomo non era mai figurato nell’inchiesta prima d’ora ma una telespettatrice del programma ha fatto sì che gli inquirenti si mettessero sulle sue tracce. Il racconto della responsabile di Quarto Grado parte da un episodio avvenuto tre anni fa in cui una loro inviata ha fatto visita a Giuseppe Piccolomo che in quel momento si trovava in carcere. Quarto Grado si è occupato di ricostruire la vicenda e sono state mandate in onda due lettere anonime che la famiglia aveva ricevuto dopo il delitto in cui si leggono parole macabre. Una telespettatrice riconosce la calligrafia della lettera e riferisce che corrisponde ad alcune cartoline che un amico le aveva inviato trent’anni fa. Una denuncia che la donna ha portato avanti mostrando agli inquirenti le prove. Di seguito è scattato l’arresto immediato dopo aver trovato una corrispondenza del 100% fra i due tipi di calligrafia.

Un giallo durato 30 anni quello dell’omicidio di Lidia Macchi che tra servizio video, indagini, articoli e reportage ha visto tutto e il contrario di tutto in questi anni sui suoi presunti assassini che di volta in volta venivano poi scagionato senza uno straccio di prova. Fino ad oggi, quando un suo ex compagno di liceo, Stefano Binda, è stato arrestato perché ritenuto autore della lettera mandata alla famiglia Macchi il giorno dei funerali 30 anni fa dove emergevano vari dettagli sull’omicidio di Lidia e anche altre prove che trovate spiegate qui sotto nelle varie tappe della vicenda di cronaca nera. Ebbene, fino alla svolta di oggi uno dei massimi problemi di questo processo non condotto alla perfezione nelle prime fasi di sviluppo, è stato certamente quello dei reperti, molti persi in questi anni. L’esempio più lampante è la borsetta di cuoio che Lidia Macchi aveva con sé quando venne trucidata con 29 coltellate in quel giorno terribile. La borsa compare nel primo registro dell’ufficio corpi di reato del tribunale di Varese ma è sfuggita all’ultimo, per intervento del tribunale stesso in extremis, dalla distruzione del 200 in base all’ordinanza legale che imponeva la distruzione di molti reperti visto che “ce n’erano troppi”, si disse all’epoca. A parte questa che si è salvata, tutto il resto è andato distrutto, dagli stivali agli indumenti fino al terriccio inzaccherato di sangue e altri oggetti trovati sulla scena del crimine. In questo video dello scorso anno vedete un servizio di Quarto grado che descrive nel dettaglio tutti i reperti trafugati o non trovati.

Una svolta, un lampo a ciel sereno nel caso di Lidia Macchi, l’omicidio fino ad oggi irrisolto tra i casi di cronaca più spiacevoli ed efferati degli ultimi 30 anni: con l’arresto di Stefano Binda, ex compagno di liceo di Lidia, oggi forse viene svelato l’assassino della ragazza varesina, avvenuto nel lontano 1987. «Trent’anni che aspettiamo, finalmente si fa luce sull’omicidio di Lidia, la procura di Milano ha lavora in silenzio, ma ha lavorato sodo: Stefano lo ricordo poco, me lo ricordo al funerale che era venuto a salutarci ma poco altro» le parole della madre, Paola Macchi, intervistata dalla Rai questo pomeriggio. Tramite invece il legale di famiglia, Stefano Pizzi, raggiunto dai giornalisti ha detto queste brevi ma significative parole: «Si tratta di un omicidio a sfondo passionale, la madre è addolorata ora anche perché l’accusato frequentava casa ogni tanto, anche se non era amico stretto di Lidia». Clicca qui per vedere il video delle parole del legale dei Macchi.

Il triste giallo sulla morte di Lidia Macchi sembra essere finalmente giunto a una svolta, dopo la riapertura del caso di omicidio avvenuta nel 2013 per volere della Procura. Le indagini hanno infatti portato all’arresto di un uomo che frequentava il liceo insieme alla vittima, Stefano Binda, e che è ritenuto essere il suo assassino. Ma ripercorriamo dunque tutte le tappe della vicenda, dalle origini a questa svolta, la cui notizia è stata data proprio oggi, facendo subito il giro di tutte le testate giornalistiche nazionali. Lidia Macchi era una studentessa di legge e aveva appena 20 anni quando, ormai 30 anni fa, era il 5 gennaio del 1987, era andata a far visita ad un’amica che era ricoverata nell’ospedale di Cittiglio, in provincia di Varese. Da quel momento in poi i suoi genitori non l’avrebbero più rivista. Quando ci si rese conto che la ragazza era scomparsa si iniziò a cercarla ovunque, con l’aiuto prezioso di amici, conoscenti e volontari. Solo qualche giorno, però, Lidia sarebbe stata trovata morta in un bosco nella provincia di Varese. La sua fine fu davvero tremenda. La ragazza infatti perse la vita in totale solitudine, abbandonata al freddo in una gelida notte di gennaio.

Le indagini partirono subito dopo il ritrovamento del corpo di Lidia e gli inquirenti decisero immediatamente di procedere con l’esame del DNA. In quegli anni questo tipo di esame era appena agli inizi, ma nonostante l’uso di questa tecnica innovativa non si arrivò ad alcun risultato utile all’identificazione dell’assassino della ragazza. In un primo tempo le attenzioni degli inquirenti si concentrarono su Don Antonio, il sacerdote che guidava il gruppo scout di cui Lidia Macchi faceva parte. Mentre il parroco non fu mai indagato formalmente, non fu così per Giuseppe Piccolomo, un serial killer già condannato all’ergastolo, che sarebbe stato escluso da questo caso soltanto dopo un anno di indagini. Una serie di prove e indizi che poi finirono nel dimenticatoio anche per le numerose notizie false e scandali mediatici che non portarono ad una vera soluziione del delitto che fino ad oggi è rimasto del tutto senza soluzione.

Il giorno in cui si tennero i funerali di Lidia Macchi, i suoi genitori ricevettero a casa una lettera molto particolare, scritta a mano e con un titolo ben preciso ‘In morte di un’amica’. All’epoca tale lettera fu pubblicata sui giornali e un’amica di Lidia la vide e ne rimase molto colpita. La grafia con cui la stessa era stata scritta, infatti, le apparve subito molto simile a quella di alcune cartoline che un suo amico le aveva da poco spedito. Erano state scritte forse dalla stessa persona? La donna che aveva riconosciuto quella grafia è stata ascoltata dai magistrati proprio lo scorso mese di luglio, nel corso del processo, e ha raccontato per filo e per segno le sue impressioni in merito. Gli inquirenti hanno così deciso di effettuare una perizia calligrafica sulla lettera arrivata in casa Macchi e hanno scoperto che sarebbe scientificamente provabile la corrispondenza della grafia con quella dell’uomo segnalato dalla testimone. L’autore della lettera sarebbe dunque Stefano Binda, un conoscente di Lidia Macchi, che oggi ha 48 anni e, nonostante sia laureato in filosofia, non ha un lavoro e vive ancora con la madre. Lidia e Stefano si conoscevano. Entrambi infatti frequentavano la stessa scuola. Secondo la ricostruzione dei fatti, pare che Stefano Binda abbia usato violenza nei confronti di Linda e poi, nella convinzione che quest’ultima si fosse concessa a lui, avrebbe deciso di ucciderla. Secondo il ragionamento di Binda, infatti, la religione in cui entrambi credevano fermamente avrebbe dovuto impedire alla ragazza di concedersi. La violenza messa in atto dall’assassino fu davvero enorme. Lidia fu uccisa infatti da ben 29 coltellate.

L’accusa che pende nei confronti di Stefano Binda è davvero pesante. Si tratterebbe infatti di omicidio volontario, a cui andrebbero ad aggiungersi anche le ulteriori aggravanti dei futili motivi e della crudeltà. L’unica ragione che avrebbe spinto l’uomo a uccidere la ragazza sarebbe stato infatti un credo religioso portato fino ai limiti dell’estremismo più irrazionale. La sua sarebbe stata in poche parole una sorta di punizione nei confronti di chi aveva, ai suoi occhi, violato le regole. Sempre secondo la ricostruzione dell’accusa, Binda avrebbe agganciato Linda proprio fuori dall’ospedale, insieme sarebbero saliti in macchina e lui l’avrebbe dunque costretta a raggiungere il bosco. Pare che a corroborare le accuse nei confronti di Binda vi sarebbe una presunta confessione scritta, che sarebbe stata trovata proprio in casa sua. Si tratterebbe di un foglietto sul quale vi sarebbe la frase ‘Stefano è un barbaro assassino’. La cosa che più fa riflettere è che queste parole pare le abbia scritte lo stesso Binda. Si tratta dunque di una confessione in merito al delitto di Linda? Sarà il processo a dare una risposta e a chiarire definitivamente quanto accaduto in quella fredda notte di gennaio. La famiglia Macchi è ovviamente sconvolta per il nuovo sviluppo delle indagini. A parlare a nome dei genitori e degli altri familiari è stato l’avvocato che li rappresenta come parte lesa nel processo, Daniele Pizzi. Quest’ultimo ha espresso anche lui stupore e ha detto di riporre fiducia nella possibilità che la verità sulla morte di Lidia venga finalmente a galla.