“Ad oggi si può affermare che è stata raggiunta la prova che l’odierno arrestato è l’autore dello scritto anonimo ‘In morte di un’amica’ ricevuto dalla famiglia di Lidia Macchi il 10/1/1987”. Così ha scritto ieri il procuratore generale presso la Corte di appello di Milano, Roberto Alfonso, nella notifica in cui si dichiara l’avvenuto arresto di Stefano Binda nel corso delle “indagini preliminari in ordine all’omicidio di Lidia Macchi, verificatosi il 5 gennaio 1987”.



Era il giorno dopo i funerali della ragazza uccisa nei boschi del varesotto quando quella lettera giungeva a casa dei suoi familiari. Una lettera che oggi ha riaperto clamorosamente un caso archiviato e dimenticato se non fosse stato per una serie di incredibili coincidenze che tali non sono mai realmente. Qualcuno, guardando il programma televisivo Quarto Grado, ha riconosciuto la calligrafia di quella lettera anonima e ha segnalato la persona. Come ha spiegato a ilsussidiario.net il generale dei Carabinieri Luciano Garofano, ex comandante dei Ris di Parma, “siamo davanti a un tipico esempio di cold case, un caso irrisolto che viene riaperto. Qualcosa che purtroppo in Italia non ha ancora la tradizione e l’importanza che ha in molti paesi stranieri, ma che si dovrebbe fare di tutto perché entri nella cultura delle indagini”. Oggi in Italia, ha aggiunto, “casi come questo che vengono riaperti portando all’individuazione del colpevole si contano sulle dita di una mano. Non va bene, è ora di fare un passo avanti”.



Generale, la clamorosa svolta che ha portato all’arresto di Stefano Binda è avvenuta grazie alla riapertura di un caso considerato già ampiamente archiviato. Non succede spesso in Italia, come mai secondo lei?

No, purtroppo non succede spesso. Sono molti i casi analoghi a questo che sono rimasti irrisolti, ma se un caso si presta a essere rianalizzato perché non farlo?

Appunto: perché non si fa più spesso?

In realtà nel nostro paese non esiste lo stesso tipo di organizzazione e di cultura per occuparsi di questo tipo di casi. Si contano sulle punte delle dita. Speriamo che questo, insieme ai pochi altri già risolti, porti allo sviluppo di questo tipo di indagine.



Quali i casi analoghi che si sono risolti?

Il più noto è certamente il delitto dell’Olgiata, l’uccisione della contessa Filo della Torre, riaperto dopo quasi vent’anni e che grazie all’esame del dna ha portato all’identificazione dell’assassino. La speranza è che questo nuovo caso possa fare da apripista per un sistematico approccio verso i tanti casi senza soluzione da tempo. 

Cosa è necessario per far sì che ciò avvenga?

Ci vogliono innanzitutto le giuste risorse economiche e poi squadre di persone specializzate. Già adesso a Roma c’è un reparto della Polizia di Stato che si occupa di questi casi. Deve però diventare un approccio sistematico, occorre creare dei reparti anche dell’arma dei carabinieri che facciano da tramite tra le indagini e i laboratori. Ricordiamoci che questo tipo di casi si risolvono in special modo se c’è l’indagine scientifica. 

 

Il caso di Lidia Macchi è passato alla storia per essere il primo in Italia dove si è fatto uso del dna, ma senza risultati. Perché secondo lei?

C’è un abisso tra quelle che erano le conoscenze di allora sul piano della conservazione delle tracce, della loro individuazione e analisi, e quanto si conosce oggi. Personalmente ho percorso tutto questo arco temporale scientifico, abbiamo iniziato a fare analisi del dna in quel periodo ma avevamo armi spuntate. Qualcosa è cominciato a venir fuori nel ’93 e ’94 quando l’esame del dna ci ha permesso di ottenere dei risultati, ma i mezzi di allora erano incomparabili rispetto alle possibilità di oggi.

 

Secondo chi indaga c’è la prova certa che Stefano Binda è l’autore della lettera anonima giunta alla famiglia Macchi, in cui ci sono particolari che forse solo l’assassino poteva sapere. Sarà sufficiente per incriminarlo?

Uno scritto non è paragonabile al dna e neanche una impronta digitale. Ci vorranno ulteriori riscontri e conferme. Certamente si dovrà fare adesso un serio esame del dna.

 

Ai tempi, quella lettera poteva forse essere esaminata più attentamente? Si è sottovalutato qualcosa? E’ stata una spettatrice televisiva in fondo a riaprire il caso…

Oggi è emerso un dato che sembra decisivo, è più che pacifico che ai tempi sia stato sottovalutato. Ma ricordiamoci che una indagine sulla grafia, per i limiti stessi della grafia umana, può essere un indizio interessante ma ha bisogno di essere convalidato con altri riscontri ed elementi. Speriamo si possano ottenere.

 

Stefano Binda frequentava la stessa scuola di Lidia, se sarà accertato che era lui il colpevole, che immagine psicologica si fa di lui? Uno che tiene dentro di sé un segreto di questo tipo, è qualcuno che rimuove inconsciamente o che cos’altro?

Nel caso dell’Olgiata, il colpevole aveva tenuto questo segreto per 15 anni. La casistica al mondo è piena di soggetti che non rimuovono l’episodio incriminato, che sanno benissimo quello che hanno fatto e trovano un compromesso con la vita. Non sono uno psicologo, ma sarebbe veramente un azzardo al momento pensare di individuare quello che questa persona ha dentro di sé. Io credo che gli omicidi abbiano normalmente una soluzione nell’ambito familiare, amicale, nella cerchia delle conoscenze della vittima. Adesso aspettiamo però altri elementi che portino al riscontro definitivo.