La Chiesa celebra oggi la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato. Essa ha origine nella lettera circolare Il dolore e le preoccupazioni, che la Sacra congregazione concistoriale inviò il 6 dicembre 1914 agli Ordinari diocesani Italiani. Quella di quest’anno cade in un momento quanto mai difficile e delicato per la comunità internazionale, che pone di fronte ad un dramma senza precedenti. Come da tradizione il Papa ha lanciato un suo personale Messaggio che ha per titolo: “Migranti e rifugiati ci interpellano. La risposta del Vangelo della misericordia”. Ne abbiamo parlato con mons. Corrado Lorefice, che dal 5 dicembre del 2015 è il nuovo arcivescovo di Palermo, città ormai da tempo in prima linea sul versante degli sbarchi e dell’accoglienza dei migranti.
Eccellenza, è il primo anno che celebra questa ricorrenza da arcivescovo e da arcivescovo di una grande città come Palermo. Che cosa ha potuto vedere?
Vivo ormai da poco più di un mese in questa città. Ho potuto toccare con mano che è una città preziosa per le ricchezze umane che racchiude in questo settore della vita sociale, soprattutto quando mi sono recato al porto per accogliere l’ultimo migliaio di profughi sbarcati. In quell’occasione ho potuto verificare quante energie positive si sono messe in campo e siano in campo ormai da oltre un anno. La ricchezza di Palermo è l’accoglienza. C’è una disponibilità al coinvolgimento di risorse, non solo in campo cattolico, che lascia stupefatti.
Ma si tratta solo di accogliere bene i migranti che tanto poi vanno o c’è dell’altro?
Questa generosità d’animo e di forze non si ferma alla banchina del porto, ma coinvolge tante altre strutture e persone che scendono in campo subito dopo e sono in grado di accogliere anche per mesi questi fratelli. Anche per questo ringrazio papa Francesco che nel suo messaggio ha espressamente ringraziato le “molte istituzioni, associazioni, movimenti, gruppi impegnati, organismi diocesani, nazionali e internazionali (che) sperimentano lo stupore e la gioia della festa dell’incontro, dello scambio e della solidarietà. Essi hanno riconosciuto la voce di Gesù Cristo: «Ecco, sto alla porta e busso»”.
Ma non avverte anche Lei un eccesso di “fiducia” delle istituzioni nella società civile che in questo campo si mostra ben più efficiente e concreta?
Bisogna essere accorti e intelligenti. Palermo ha dimostrato di saper accogliere al porto e anche dopo. Ma per il dopo bisogna essere pronti e preparati con strutture e risorse adeguate. In occasione dello sbarco di cui ho detto sono rimasti tra noi un certo numero di minori non accompagnati, accolti in strutture attrezzate di cui ci prendiamo cura ancora oggi. Bisogna saper leggere la storia. Dal 2014 Palermo è diventata un’altra città in grado di ricevere sbarchi di migliaia di persone; lo ha fatto e lo fa in modo encomiabile. Ma deve fare questo in modo umano. Non possiamo ad esempio mettere cento persone in una struttura in grado di accoglierne 10. Certo, non vanno respinti, ma è chiaro che bisogna attrezzarsi per queste evenienze.
Cosa intende dire?
Che proprio giovedì scorso si è insediato in episcopio un tavolo di lavoro che ho richiesto personalmente per affrontare questa emergenza, insieme a quella abitativa. Si sono riuniti su mio invito il prefetto, il sindaco e gli assessori competenti, sia comunali che regionali. L’iniziativa è stata apprezzata da tutti, non solo dai partecipanti. Le istituzioni, la politica, la comunità cristiana comprendono ormai che c’è un dato storico che deve vederli insieme e che c’è un’emergenza che va affrontata insieme e — soprattutto quella abitativa — nel segno della legalità. Insomma, è giunto il momento di lavorare in rete, creando un coordinamento intelligente.
Proprio su questo particolare aspetto dell’accoglienza è intervenuto alcuni giorni fa in tv il segretario generale della Cei, mons. Galantino, sostenendo che l’integrazione non è mai frutto di un buonismo a buon mercato e che la Chiesa italiana non è quella che accoglie tutti, comunque sia, comunque vengano, qualsiasi cosa facciano. Lei cosa ne pensa?
Buonismo è un termine molto forte. Io dico spesso che l’altro è logos, è parola che ti raggiunge. E’ chiaro che perché ci sia un dialogo, deve esserci una reciprocità. Io mi arricchisco della diversità dell’altro e l’altro si arricchisce anche della mia ricchezza, della mia identità. Da questo punto di vista penso che Palermo oggi possa dire molto, perché Palermo è stato crocevia di lingue, di parole che si sono realmente incontrate per cui la convivenza si è arricchita, ha prodotto cultura. L’esperienza della comunità cristiana non inclina al buonismo. Il cuore del cristianesimo è un Dio che fuoriesce da sé stesso, che quasi sfigura la sua identità pur di assumere l’altro nella sua diversità. E’ quello che San Paolo chiama kenosi. Il Verbo di Dio si fa uomo e l’uomo “diventa Dio”. Il nostro non è un buonismo, un paternalismo. Anzi noi dovremmo essere, in quanto cristiani, in quella che possiamo definire la relazionalità cristica.
Che vuol dire in concreto?
San Paolo dice parlando di Dio: da ricco che era si fece povero. Ma tutto avviene nella dimensione dello scambio. Perché l’uomo si arricchisce di questo svuotamento di Dio e Dio si arricchisce dell’identità umana. Noi cristiani invece a volte trattiamo il nostro patrimonio di ricchezza senza riuscire ad immetterlo in circolo, perché leggiamo il Vangelo con le precomprensioni umane. E così accade che mentre accogliamo chi viene dal sud del mondo addirittura ne riceviamo un vantaggio, perché questo ci aiuta ad avere occhi per vedere i profughi e i poveri delle nostre città, frutto delle scelte economiche dell’Occidente. Con una frase un po’ forte potremmo dire che la nostra stessa carne è profuga. Ed anche su questo punto papa Francesco ci da precise indicazioni nel messaggio di quest’anno.
Quali?
Quando afferma che la risposta del Vangelo è la Misericordia, perché dono di Dio rivelato nel Figlio. E poi aggiunge: “…la misericordia ricevuta da Dio, infatti, suscita sentimenti di gioiosa gratitudine per la speranza che ci ha aperto il mistero della redenzione nel sangue di Cristo. Essa, poi, alimenta e irrobustisce la solidarietà verso il prossimo come esigenza di risposta all’amore gratuito di Dio” e poi aggiunge una frase molto efficace: “L’ospitalità, infatti, vive del dare e del ricevere”.
Può approfondire questo tema dell’incontro e del dialogo nella diversità, che anche i recenti fatti della notte di Capodanno in Germania hanno prepotentemente portato alla ribalta?
Il rifugiato è qualcuno che arriva nella nostra vita come una parola, anzi è parola e la parola ci raggiunge perché accada un dialogo. E’ anche un volto che ci interpella a cui dare risposta, perché è il volto di un uomo. E da questo punto di vista penso sia chiaro il fatto che il messaggio è scritto dallo stesso Papa che ha indetto l’Anno giubilare della Misericordia; un Papa che ha richiamato la Chiesa a ripensarsi a partire da ciò che la contraddistingue. Parliamo, cioè, del dna stesso della comunità cristiana, di un cuore capace di vivere di misericordia e di accoglienza, cioè di un cuore che realmente riesce a coinvolgersi. E questo appello è rivolto a tutti gli uomini, non solo ai cristiani, perché oggi più che mai abbiamo la consapevolezza che non possiamo più fare un discorso settoriale di identità che si escludono, ma di identità che convivono. Lui utilizza termini anche molto forti, anche perché a volte ci si può trovare di fronte a manifestazioni che rasentano il razzismo.
E i recenti fatti di questi giorni a Colonia e in Germania cosa insegnano?
Ci dicono che certamente non è quella la strada. Il Papa ha scritto infatti: “I migranti sono nostri fratelli e sorelle che cercano una vita migliore lontano dalla povertà, dalla fame, dallo sfruttamento e dall’ingiusta distribuzione delle risorse del pianeta, che equamente dovrebbero essere divise tra tutti”. La questione è questa diversa distribuzione delle ricchezze che è una responsabilità soprattutto del Nord del mondo e questo ci riguarda per le scelte che noi siamo chiamati a fare. Riguarda soprattutto chi ha una responsabilità internazionale e politica, perché non si può più pensare in termini di singoli Stati; siamo realmente un mondo diventato villaggio globale. Il Papa legge questo dato storico e ci dice che c’è un Sud del mondo che spinge verso il Nord e che questo deriva dalla povertà e dalle guerra che ci sono in quelle zone. E questa è anche responsabilità dell’Occidente che ha voluto imporre al mondo intero un suo sistema di sviluppo che fa perno sul profitto. Fame e guerra sono in tal senso due facce della stessa medaglia. E di questo posso dare anche personale testimonianza.
Cioè?
Per le opportunità che la vita mi ha dato conosco l’America latina, l’Africa e il Medio oriente. A febbraio scorso sono stato a Damasco, ad agosto in Congo, e la domanda che mi pongo ogni volta è: com’è possibile che possano convivere in questi paesi grandi ricchezze (oro e uranio per esempio) e al tempo stesso grandi povertà?
E che risposta si è data?
Che dobbiamo fare i conti con un nuovo fenomeno, per altro ampiamente previsto dagli studiosi: questa gente stanca di aspettare si è messa in moto ed è venuta ad abitare da noi. Anche se questo è frutto di una responsabilità a monte, noi non possiamo creare barriere, ne tantomeno sparare sui barconi. Perché questo significherebbe avere una lettura solo emotiva se non ideologica della situazione e negare la storia stessa dell’uomo che si è sviluppata fin da Abramo attraverso le migrazioni. E’ chiaro poi che il Papa spinge ad andare oltre.
Verso dove?
Verso una concezione ed una esperienza della parola Misericordia che non sia come noi la intendiamo spesso, cioè come una sorta di commiserazione per i più disgraziati, cioè in termini paternalistici e sentimentali. L’invito del Papa è rivolto agli uomini perché ripensino la loro convivenza alla luce del messaggio che Gesù ha reso vivo con parole e gesti. E’ il messaggio della Rivelazione, che è il messaggio che Dio ha scelto per rivelare il Suo volto. Il volto che Gesù ci racconta di questo Dio è il volto di un Dio che pensa gli uomini senza distinzioni, un Dio che vuole l’intera famiglia umana radunata nel segno della giustizia e della pace. Mi colpisce sempre quel passo della Gaudium et spes in cui si dice che la vocazione dell’intero genere umano è quella di conseguire Dio, il Signore è il fine dell’intera storia umana. Nel Nuovo Testamento è chiaro l’annunzio di un Nuovo Mondo, di una Nuova Creazione, di Cieli Nuovi e di una Terra Nuova.
A cosa si riferisce in concreto?
Al fatto che il cristiano non può sopportare che nel mondo ci siano uomini e donne che soffrano. Se il fine dell’intera famiglia umana è conseguire il paradiso, e non solo dei cristiani, allora chi porta il volto della sofferenza è colui che in questo momento deve essere aiutato a veder realizzato fin da ora un sogno che è il sogno di Dio preparato per noi, quello che in termini più teologici si chiama la “gloria di Dio”. San Paolo ne parla in termini di “spessore di gloria”, di una certezza che si radica sulla Resurrezione di Gesù. I Cieli Nuovi e la Terra Nuova non sono mera fantasia, perché io condivido con tutti i fratelli cristiani questa certezza: che noi ci muoviamo verso l’interruzione della storia che conosce ingiustizia, sofferenza, e verso i Cieli Nuovi e la Terra Nuova che Gesù Cristo con la sua Pasqua ha inaugurato.
Concludiamo tornando da dove siamo partiti: l’accoglienza e l’impegno dei cristiani. Nel recente libro La bellezza disarmata don Julián Carrón scrive: “Quando coloro che abbandonano le loro terre arrivano da noi alla ricerca di una vita migliore. Quando i loro figli nascono e diventano adulti in Occidente, che cosa vedono? Possono trovare qualcosa in grado di attrarre la loro umanità, di sfidare la loro ragione e la loro libertà? Lo stesso problema si pone in rapporto ai nostri figli: abbiamo da offrire loro qualcosa all’altezza della domanda di compimento e di senso che essi si trovano addosso?”. Concorda con questa lettura e quale risposta si può dare?
Penso che l’Occidente possa dare a quanti giungono tra noi questo messaggio: noi realmente abbiamo maturato concetti molto alti. Mi riferisco alla dignità della persona, alla libertà della coscienza, al rispetto del credo religioso. Noi possiamo fare molto, ma riceviamo anche molto. Questi fratelli che vengono dal Sud hanno una ricchezza di una visione antropologica globale; loro non si pensano senza Dio. Ritengo che questa sia una grande ricchezza e una grande reciprocità al di là dei fondamentalismi che purtroppo emergono. Molti di questi fratelli portano anche l’istanza di una vita spirituale. Un musulmano si prostra a terra cinque volte al giorno per pregare, anche in pubblico. In quel gesto c’è una dimensione della vita che forse abbiamo perso e c’è anche una grande ricchezza che dovremmo imparare a conoscere.
E qual è il nostro compito?
Noi possiamo ricordare loro la dignità della persona, il rispetto umano. Poi ci vuole tutta l’intelligenza e la capacita di reciproca accoglienza per porre un passo dietro l’altro. Mi soffermo su una aspetto che la notte di Colonia ha riproposto con crudezza: la concezione della donna. Dietro il riconoscimento dei diritti della donna, che ormai abbiamo maturato e acquisito, c’è, non dimentichiamolo, anche un lungo cammino che abbiamo fatto, non senza fatica, unito talvolta anche a qualche passo indietro. Anche noi abbiamo faticato, nonostante l’aiuto che ci viene dal cristianesimo che a volte approcciamo con categorie culturalmente condizionate. E’ vero che la fede si deve inculturare, ma è anche vero che deve conservare una sua capacità critica nei confronti delle categorie culturali. Che la ricorrenza odierna sia occasione non solo per essere più generosi ma anche per andare più a fondo: cito le ultime parole del messaggio di papa Francesco: “Alla radice del Vangelo della misericordia”.