NEW YORK — Il professionista di successo che si trasforma in ricco globe-trotter; e i martiri cristiani: magari negli stessi tempi e luoghi di Don Chisciotte che all’inizio dell’era moderna saluta la libertà come “la cosa più preziosa” per un uomo; e Kafka, che quattro secoli dopo ritrae lo stesso uomo timoroso di uscire dalla sua prigione, spaventato da una libertà che scopre di non conoscere, di non amare, di non saper usare. 



La conversazione che don Julián Carrón ha tenuto con don José Medina — nel cuore della domenica del New York Encounter 2016 — ha esplorato in tutte le direzioni e dimensioni la crisi e la rinascita del senso-valore della libertà nella contemporaneità.

Lo ha fatto in una terra che  pone la libertà a fondamento e centro della propria civiltà. Ma gli States sono anche una società — ha incalzato Medina citando l’Huffington Post — in cui il binomio libertà-felicità può diventar sinonimo di carriera veloce e accumulo di mezzi sufficienti per rendere la propria vita una vacanza permanente e vagabonda. Lussuosa o anche povera, come quella di Kerouac. Una vacanza che può equivalere all’attimo (improvvisamente infelice) che segue un attimo di apparente felicità magari lungamente attesa: il Premio Strega cui Cesare Pavese non sopravvisse.



“È il sogno di molti oggi — riconosce Carrón — per alcuni versi è The Dream, il sogno dei nostri tempi: annullare i vincoli, i legami”. Ma è qui che origina quella paradossale “paralisi della libertà” che sembra coincidere con la fine della modernità iniziata con l’emergere universale della libertà. È la “non-libertà”, ad esempio, di chi decide non di mettere al mondo un figlio con il pretesto di non esporre altri uomini al rischio potenziale di infelicità. Per Carrón è lampante la crisi di una libertà divenuta inutile: una libertà negata dal rifiuto ad affrontare rischi e responsabilità di una vita adulta e in quanto tale libera. È il dramma dei due coniugi protagonisti di Purity di Jonathan Franzen — cita ancora il leader di Cl — che si ritrovano prigionieri non del loro matrimonio ma della loro incapacità di vedervi la libertà in luogo di vincoli e restrizioni. Né la libertà è riducibile a semplice autonomia — osserva Carrón — e tanto meno all’opposto di una dipendenza da altro, che qualcuno identifica come malattia”.



La libertà “vera” — “il bene più grande” secondo il cardinale Joseph Ratzinger — è anzitutto una scoperta, un’esperienza di viaggio coraggioso (un “longing without fears”, secondo il titolo-proposta del NYE 2016). Il momento cruciale è quello in cui l’uomo esce dalle porte delle sue prigioni e scopre anzitutto che la libertà è inseguire desideri talmente grandi da non poter essere mai soddisfatti per intero. 

Chiamatelo “infinito” come ha fatto Leopardi, suggerisce Carrón, o chiamatelo “mistero”. È certamente un’esperienza dinamica in cui “il centro dell’io viene chiamato a decidere ciò che veramente lo muove e lo commuove”. Per molti, ben presto, la libertà diventa libertà di credere, libertà religiosa: cioè la forma più immediata e impegnativa di ricerca della libertà di abbandono della prigione dell’assenza di legami, rapporti, incontri con gli altri, con l’Altro. “La verità  si raggiunge attraverso la libertà”: Carrón ripete una frase cara a don Giussani, che non giocava mai con le parole.

“La libertà ha una relazione intrinseca con la verità”, ha detto ancora Papa Benedetto. Ed è così che Carrón può additare la libertà infinita e misteriosa dei martiri cristiani di sempre: solo un lungo percorso orientato da un’attrazione autentica può consentire a un uomo di esprimere la libertà di morire per testimoniare la verità che ha liberamente seguito e inseguito. “Non c’è genuina libertà se non nell’incontro con Gesù” (Papa Francesco).