Dopo mesi di discussioni, l’approdo in parlamento delle unioni civili, con il ddl Cirinnà, ha mobilitato due piazze: l’una a reclamare il riconoscimento di nuovi diritti e l’altra che reclamerà, sabato prossimo, la difesa dei diritti tradizionali. Due piazze, cui, considerati alcuni toni agitati, non stonerebbe un po’ più di riflessività. Che poi vuol dire, pur nella difesa sincera delle proprie convinzioni, non banalizzare le ragioni e le preoccupazioni che a quelle convinzioni vengono opposte, le ragioni “degli altri”. 



In questo senso, fa bene Julián Carrón, nel suo commento di ieri sul Corriere della Sera a ricordare — a chi i nuovi diritti avversa, considerandoli un attentato ai valori fondanti la civiltà occidentale — il diritto all’espressione di questi nuovi diritti, e alla loro ricerca di tutela positiva nell’ordinamento giuridico; a ricordare che ciascuno di questi nuovi diritti «pesca in ultima istanza in esigenze profondamente umane: il bisogno di amare ed essere amati, il desiderio di essere padri e madri, la paura di soffrire e di morire, la ricerca della propria identità». Esigenze non comprimibili, cui non si può opporre grettezza di “comprensione”, cioè di cuore e di mente. Ma fa altrettanto bene a ricordare a chi, per questa radicalità umana che vi si esprime, ne vive il fascino, di non credere più di tanto che la “salvezza” dell’equazione della vita, del suo senso di compimento, della sua “felicità” possa risolversi nell’aspettativa, soddisfatta, che «l’ordine giuridico risolva il dramma del vivere e garantisca “per legge” una soddisfazione dei bisogni infiniti propri di ogni cuore».



Infatti, andando al fondo delle cose, «con tutto il rispetto dovuto al dibattito giuridico», l’insoddisfazione di una condizione umana, omosessuale o eterosessuale, non ha il suo punto di acquietamento in questa o quella norma, pure utile e benvenuta a sovvenire a questa o quella situazione concreta. E «il grido di compimento, che c’è dietro ogni tentativo umano» può trovare risposta solo da «una vita diversa e nuova che può rivoluzionare strutture, iniziative, rapporti, insomma tutto» (Giussani). 

Questo compimento, in una “vita nuova”, per i cristiani, solo Cristo «come avvenimento presente nella vita delle persone» può farlo assaporare, liberando l’uomo dalla riduzione in cui chiude il suo desiderio — in cui si chiude con il suo desiderio —, facendogli desiderare e sperimentare quella pienezza per cui è fatto. Ma chi ha questo, ha già tutto, se gli basta. Va da sé. La questione è dirlo a chi non lo ha, o non gli basta. L’originalità cristiana è, anche, la più fine sensibilità su questo punto: che poi vuol dire la qualità dell’annuncio che si presume di essere, in cui si crede, su cui “si è posto il cuore”.



E qui non è un problema di passi indietro o avanti (“per adesso”, per un problema di opportunità, di mediazione nell’episcopato tra tradizione e innovazione) sulla dottrina tradizionale della famiglia della Chiesa, come ha commentato sempre ieri Eugenio Scalfari su Repubblica; dottrina che è e resta quella che è sempre stata. Piuttosto di finezza nel proporsi a se stessa e agli altri di questa “vita nuova”, in cui chi si coinvolge sa che «la famiglia fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo appartiene al sogno di Dio», come Francesco ha detto nel discorso di venerdì all’apertura dell’anno giudiziario del tribunale della Sacra Rota. 

Il “sogno di Dio”, quel che sognerebbe ogni padre per i suoi figli. Ma mentre gli citava questo sogno, Francesco ha anche ricordato ai responsabili dei processi matrimoniali che «non dovranno mai dimenticare il necessario amore misericordioso verso quanti, per libera scelta o per infelici circostanze della vita» non vivano o possano vivere quel sogno, o più semplicemente hanno un altro sogno, che non resta meno umano e degno di rispetto, per quanto dal punto di vista della Chiesa sia «uno stato obiettivo di errore». Da qui nello stesso giorno del suo intervento al tribunale rotale, l’invito nel messaggio ai partecipanti alla cinquantesima giornata mondiale della comunicazione ad «esprimersi con gentilezza e comprensione anche nei confronti di quanti, in merito al matrimonio pensano e agiscono diversamente». 

Se qualche grano di questa finezza circolerà nelle piazze reali e virtuali, che si stanno confrontando in questi giorni, questo Paese avrà qualche chance in più che si costruisca, tutti insieme, anche con una legge sulle unioni civili largamente condivisa nel merito dei problemi, quel “bene di tutti” cui Francesco ha chiesto di accudire a Firenze il 10 novembre 2015 sollecitando tutti, non solo la sua Chiesa, a camminare insieme sulle vie dell’umano, e che Carrón ha ricordato ieri nella chiusa del suo intervento.