Sono in viaggio con un amico straniero, proveniente da un paese di tradizione ortodossa nel quale – nonostante il fatto che la partecipazione attiva dei fedeli alla vita di fede nelle parrocchie sia a livelli ben più bassi che in Italia e che un “pratico ateismo” venato di alcuni miti valoriali interessi la gran parte della popolazione – resta molto forte l’idea che il legame tra i vertici della Chiesa e il governo sia essenziale per la custodia e l’affermazione dei valori costitutivi della nazione, tra i quali sono in posizione eminente – benché non unica – i valori della tradizione cristiana.
Il discorso va sul dibattito relativo alla proposta di legge Cirinnà, e l’amico mi chiede cosa stia facendo a questo proposito la Chiesa cattolica, e se non stia intervenendo sul governo in modo da bloccare l’approvazione di questa legge. Gli rispondo che ci sono state diverse prese di posizione, che il Papa stesso ha affermato il valore della famiglia composta da uomo e donna uniti in matrimonio e aperti al dono dei figli e la sua insopprimibile differenza da ogni altro tipo di unione; che sabato ci sarà una manifestazione che vuole portare questa posizione all’attenzione dell’opinione pubblica e in particolare dei parlamentari che saranno chiamati a votare la Cirinnà.
Mi incalza: “Ma questo siete sicuri che porterà a evitare l’approvazione di questa legge?”. Gli rispondo che non si può escludere a priori che la legge venga approvata. Continua: “E che cosa farete se anche in Italia venissero approvati il matrimonio e l’adozione di figli da parte delle coppie omosessuali?”. Gli rispondo che dovremo continuare a cercare di cambiare le leggi, ma che – soprattutto – la vera possibilità che ci rimarrà sarà quella dell’educazione e della testimonianza. Che saremo chiamati ancora più di ora a mostrare che la vita di una famiglia con padre, madre e figli, come la mostra la Rivelazione di Dio, è più umana e più corrispondente al desiderio di felicità di ogni persona. E che – come al tempo dell’inizio del cristianesimo – sarà soprattutto per il “contagio” di una vita buona e per la capacità di suscitare domande, che potremo sperare in un cambiamento della situazione.
Il mio amico, a queste parole, resta in silenzio. A lungo. Mentre scorre la strada, vedo che guarda fuori dal finestrino, e il suo volto mostra che sì, conosce bene lo scenario da me descritto, ma insieme non riesce a convincersi che il ritorno alla situazione degli inizi del cristianesimo – quando, secondo la testimonianza di Svetonio e di altri storici, un Nerone poteva far evirare un suo liberto, Sporo, sposarlo e tenerlo con sé fino alla morte come una moglie, un Tiberio poteva farsi accompagnare in piscina da fanciulli che avevano il compito di rendergli piacevole il bagno o un Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, poteva dar ordine di perseguire d’ufficio i cristiani assimilandoli ai nemici pubblici dell’impero – possa costituire uno sbocco possibile per la nostra vita di cristiani.
Quel silenzio mi colpisce e mi interroga. Perché mi sembra che ponga la questione più radicale, quella che continuamente cerchiamo di sfuggire, in mille modi e con mille e mille ragionamenti, ma che ritorna continuamente, implacabile e inesorabile: come si vive e testimonia la fede in un mondo che ha perso ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, e nel quale gli stessi capisaldi della ragione vengono continuamente proposti come mere opinioni?
Tale domanda – questo va da sé – non può essere proposta per “gli altri”, ma tocca prima di tutto ciascuno di noi. E non è alternativa al doveroso ricorso agli strumenti possibili nel campo culturale e politico per arginare la deriva nichilista.
In questi giorni circola tra le mailinglist, i blog e i commenti agli articoli, il testo di una lettera che l’allora card. Bergoglio scrisse a quattro monasteri di clausura carmelitani di Buenos Aires, invitando le monache a pregare alla vigilia della discussione nel parlamento argentino di una legge relativa al matrimonio e alla possibilità di adozione da parte di coppie omosessuali, nella quale la presa di posizione è netta e ineludibile quando il card. Bergoglio afferma che si tratta non solo di una legge, bensì di “un tentativo distruttivo del disegno di Dio”.
Ora, la legge in questione fu approvata il 15 luglio 2010. Cosa significa questo? Che il Signore non ha voluto ascoltare la preghiera delle Carmelitane e di tutti gli altri fedeli? Oppure – oso sommessamente domandare – non è forse possibile che il Signore stia comunque operando quanto lo stesso cardinale Bergoglio affermava nel prosieguo della lettera: “Gesù dice che per difenderci da questo accusatore bugiardo ci manderà lo Spirito di Verità”? E questo non solo per contrastare la falsità delle posizioni altrui, ma anche per guidare ciascuno di noi ad un approfondimento della propria fede?
Proprio questa settimana, la liturgia ambrosiana proponeva nella Messa la lettura del brano evangelico (Mc 4,35-41) in cui durante una tempesta sul lago Gesù dorme a poppa, su un cuscino. I discepoli lo svegliano e gli dicono “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”. Ma dopo aver calmato il vento e il mare, il Signore dice loro: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. Perché questa domanda? A noi potrebbe sembrare che i discepoli avessero fatto la cosa più giusta: svegliare il Signore. Ma proprio nella loro domanda Cristo vede una mancanza di fede. Qui trovo una questione capitale per me e per ciascuno di noi: quante volte abbiamo come l’impressione di vederci già perduti, e pensiamo che ci sia bisogno di “svegliare” il Signore che si è addormentato, magari dopo aver riscontrato che il nostro ricorso a tutte le nostre capacità ha avuto esito fallimentare, generando ansia, frustrazione e un pizzico di risentimento verso il Suo sonno.
L’alternativa, mi pare, sta invece in una fede certa della Sua presenza e attività anche quando ci sembra di perire. E nel desiderare una risposta alle circostanze che nasca proprio da questa certezza. Anche in questo ci viene in aiuto l’esempio dei primi cristiani. Proprio mentre Nerone imperversava con le sue follie, violenze e dissolutezze, incarnando una delle peggiori forme del dispotismo assoluto che la storia ricordi, l’apostolo Pietro scriveva (1Pt 3,8-16): “Siate tutti concordi, partecipi delle gioie e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili. Non rendete male per male né ingiuria per ingiuria, ma rispondete augurando il bene. A questo infatti siete stati chiamati da Dio per avere in eredità la sua benedizione. Chi infatti vuole amare la vita e vedere giorni felici trattenga la lingua dal male e le labbra da parole d’inganno, eviti il male e faccia il bene, cerchi la pace e la segua, perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti e le sue orecchie sono attente alle loro preghiere; ma il volto del Signore è contro coloro che fanno il male. E chi potrà farvi del male, se sarete ferventi nel bene? Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo”.
Non possiamo ignorare la forza di queste parole, assolutamente lontane da ogni spiritualismo o intimismo, quando le collochiamo nel contesto storico che le ha generate. Eppure l’indicazione di Pietro è quella che guarda non solo alla testimonianza esterna, ma che insiste nell’atteggiamento interiore da cui nasce la testimonianza: ovvero la disponibilità a non turbarsi per il male ricevuto ingiustamente, e a rispondere con dolcezza e rispetto a chiunque domandi ragione della speranza dei cristiani.
Penso che in queste parole stia la possibilità di intuire quanto sia sterile porre come unica alternativa quella tra la testimonianza militante e un presunto ritirarsi nell’intimismo. La domanda più radicale è posta a ciascuno di noi relativamente alla qualità della fede capace di sostenere una posizione come quella descritta, vissuta e insegnata dall’apostolo Pietro. Al quale non si può certo imputare un difetto di comprensione della sequela.