La disciplina dell’atletica, fatta seriamente, è roba molto-seria, quasi divina: seppur senza religione, s’avvicina moltissimo ad una sorta di ascesi. Il santo e l’atleta, pur partendo da prospettive differenti, s’accendono dalla medesima scintilla: il sospetto che l’uomo sia sempre oltre, in uno stato di parto, quasi un cacciatore sempre lanciato all’inseguimento della preda. Bersaglio pur sempre fallibile, eppur sempre a portata di mano. Alternando il fallimento e il successo, lo sport denuda i nostri limiti e, facendolo, spalanca sulle nostre possibilità. Se l’atletica è roba molto seria, la disciplina della marcia è un passo ancora oltre: è impossibile giocare a guardia-e-ladri con lei senza, per questo, scottarsi.



La notizia è giunta alla vigilia della festa di san Giovanni Bosco: il santo dei giovani, il guru dell’oratorio, l’educatore per eccellenza. E’ una notizia di sport, eppure non è solo sport ciò di cui tratta. Sandro Donati – colui che nelle vesti di consulente dell’Agenzia Mondiale Antidoping smascherò, tra le altre truffe, il sistema Armstrong – durante una cena, confida ad Alex Schwazer l’ultimo tassello ch’era ancora rimasto segreto tra i due: “Sono stato io a segnalare alla Wada la necessità di controllarti”. 



Donati, dunque, fu colui che provocò la squalifica di Alex Schwazer, pochi giorni prima dell’olimpiade di Londra 2012. Sandro Donati, però, da quasi un anno è l’allenatore fedele nelle cui mani Alex ha deciso di mettersi per tentare, dopo aver scontato fino all’ultimo la condanna inflittagli, l’avventura dell’olimpiade di Rio 2016: ancora marcia, sogni, sudore. Quella rivelazione – fatta quasi un anno dopo la loro convivenza che già frutta indizi di medaglia – è stata fatta per “mettere la parola fine a tutti coloro che hanno pensato di darmi lezioni di etica” ha specificato Donati. Aggiungendoci un dettaglio tutt’altro che irrisorio: perché “deve essere chiaro tra noi due”. 



La risposta di Alex alla rivelazione? Disarmante: “Per me non cambia nulla”. Può, dunque, il tuo accusatore diventarti allenatore al punto tale d’esserti alleato?

Verrebbe proprio da rispondere positivamente, irraggiati dal bagliore del santo del quale proprio oggi la Chiesa celebra la festa: san Giovanni Bosco. Il cui motto divenne un metodo applicatissimo nei secoli: quello di “mettere gli allievi nell’impossibilità di commettere mancanze” (Il Sistema Preventivo nella educazione della Gioventù). L’allenatore lotta per anni – nella polvere anonima di una palestra, nel silenzio recondito di una pista, ai bordi di un campo rigato di calcina – perché la medaglia vada al collo di un altro, dell’atleta nelle cui gesta ha intravisto un anticipo di scommessa. Donati ha fatto crollare il castello-di-carta di Schwazer. Poi – è per questo che allenatori si nasce – con quelle medesime pietre ha ricostruito il sogno di quel ragazzo che, coronatosi d’oro a Pechino nel 2008, in conferenza stampa stregò il pubblico con una frase degna di quella marcia tribale e celestiale: “Non sono felice perché ho vinto, ma ho vinto perché sono felice”. Da quei giorni, in lui, c’è stato di tutto un po’: lacrime e orgoglio, sfottò e indulgenza, rabbia e mistero. Cenere in testa, parole di lutto.

A chi nasce fuoriclasse occorre saperci parlare: “Non è sufficiente amare i giovani, occorre soprattutto che i giovani si sentano amati”, scriveva don Bosco. Spingendosi un passo oltre: “Ognuno si faccia amare per educare i giovani”. Quella di Sandro Donati e Alex Schwazer è un bell’omaggio al santo che più di tutti seppe scorgere la farfalla nel bruco, la perla nell’ostrica, la medaglia nella disfatta. Di più: seppero adocchiare l’uomo dentro la disfatta. Dai tempi di Valdocco, la Betlemme di don Bosco, è trascorso oltre un secolo. Il segreto della santità, della vittoria è identico: mettere l’uomo nelle condizioni di poter fallire senza soccombere definitivamente. Di cadere per alzarsi, senza perire.