Quanti confini dovettero attraversare quei tre uomini saggi, grandi esperti di stelle, che erano arrivati dall’Oriente a rendere omaggio a Gesù? La tradizione dice che venivano dagli altipiani iranici, e quindi nel loro viaggio verso Gerusalemme certamente passarono molti paesi per arrivare alla loro meta. E alla fine ci arrivarono. Ci sono certamente tanti modi per guardare a questo stupendo episodio raccontato da Matteo, ma quello relativo al loro viaggio oggi assume una particolare ed evidente attualità: sono tre re “migranti”, dopo i poveri e semplici pastori, i primi ad arrivare davanti alla mangiatoia.
Uomini, per quel se ne sa, di una cultura lontana, forse di impronta zoroastriana. Eppure attratti senza riserve dalla presenza di quel Bambino.
Per analogia è inevitabile pensare a come il tema dei migranti provenienti in particolare proprio da oriente sia tema che sta segnando la cronaca di questo anno appena iniziato, dopo aver scosso profondamente la storia dell’anno passato. Paesi di buona reputazione quanto ad accoglienza come Danimarca e Svezia chiudono le loro frontiere ai profughi. Un ponte simbolo del superamento persino dei confini naturali, come il ponte che unisce Copenhagen e Malmö, viene “sbarrato” per impedire ulteriori ingressi di migranti in Svezia. Intanto sul fronte est del continente è un susseguirsi disordinato di muri (quello ungherese) o di presidi militarizzati delle frontiere, per fermare e scoraggiare i flussi. Gli accordi di Schengen sulla libertà di movimento delle persone all’interno di quasi tutta l’Europa vengono di fatto sospesi da molti paesi che li avevano sottoscritti.
È una situazione di panico politico che segue a un’incapacità di affrontare e gestire questo fenomeno epocale con cui il nostro continente si trova e si troverà a fare i conti. Ovviamente è inutile vantare di avere ricette facili per un fenomeno così complesso, ma a volte sembra che il problema stia più nella narrazione di quel fenomeno che non nella sua gestione: una narrazione che esaspera situazioni e che sembra ogni volta “chiamare” soluzioni drastiche, magari coprendosi con esigenze di sicurezza. Un caso opposto ad esempio è quello tedesco. Qualche mese fa la cancelliera Angela Merkel, con mossa a sorpresa anche in seguito allo choc planetario per la foto del piccolo Aylan naufrago sulla spiaggia turca di Butros, aveva deciso per un’accoglienza senza riserve in Germania dei profughi siriani. La Merkel è alla guida di un governo conservatore eppure non ha avuto timore di un collasso di consensi nel suo elettorato. Il risultato è che il più importante paese della Ue ha visto entrare nel 2015 la cifra record di un milione di richiedenti asilo senza dover fare i conti con rilevanti conflitti ideologici o sociali, nonostante episodi come quello accaduto a Colonia nella notte di Capodanno. Del resto per la Germania le cose sono più semplici, in quanto a livello occupazionale è addirittura tornata sopra i livelli pre-crisi (4,5 % l’indice di disoccupazione) e questo ha certamente permesso un migliore assorbimento dei nuovi arrivati.
C’è un altro episodio emblematico che le cronache hanno (molto timidamente…) segnalato in queste settimane recenti. Uno dei più famosi artisti del mondo, il cinese Ai Weiwei, ha voluto trascorrere il periodo tra Natale e Capodanno sull’isola di Lesbos in Grecia per vivere in prima persona il fenomeno degli sbarchi dei profughi siriani che approdano dalle vicine coste turche. Ai Weiwei non ha fatto altro che partecipare a qualche operazione di soccorso e per il resto ha partecipato alla vita nei campi con i migranti, in quei giorni particolari che in genere sono i giorni della felicità e della serenità. Ha documentato tutto con decine e decine di immagini diffuse sui social, non tanto per denunciare una situazione che del resto è stata narrata da tutti i media, ma soprattutto per documentare tante amicizie nate con quelle persone venute, anzi fuggite, da oriente. Alla fine Ai Weiwei, artista “planetario”, ha deciso di insediare sull’isola un suo studio, a cui ha chiamato a lavorare una decina di suoi allievi.
Ci voleva un artista per ricordare che è l’incontro con l’umanità dell’altro, è quella simpatia che immediatamente scatta, il miglior antidoto ai muri e allo sbarramento delle frontiere. Ai Weiwei non ci dice altro che quei volti e quelle vite sono un valore e non certo un problema: cosa di cui quei tre re, duemila anni fa, avevano piena consapevolezza.