All’inizio dell’anno avanzo un proposito per il mondo della stampa e della politica, viste le note di cronaca che già hanno segnato questi primi giorni del 2016. Perché non provano ad uscire dalla logica delle emergenze e aprire scenari a lungo termine?

Abbiamo assistito in questi giorni ai tragici eventi familiari di donne morte in gravidanza, morti che per qualche motivo si sono concentrate in pochi giorni, e abbiamo visto come i massmedia abbiano iniziato una ricerca della colpa di qualcuno; cosa interessante e doverosa – che comunque, se mal amplificata, non aiuta certo a far sentire la popolazione al sicuro in quella che è una delle migliori sanità pubbliche del mondo –, ma non sarebbe ancor più interessante liberare il concetto di malasanità dal singolo errore e domandarsi se il modello-azienda degli ospedali, in cui il malato è “utenza”, in cui il medico è “fornitore di servizi” sia davvero adeguato?



In cui insomma curare gli altri sembra un lavoro pari agli altri (e non lo è, non lo deve essere, non perché migliore o peggiore ma perché ontologicamente diverso)?

Abbiamo poi assistito all’emergenza smog, e anche qui sembrava di vedere una corsa alla migliore organizzazione del traffico (controllo cittadino o regionale? Targhe alterne o blocco del traffico?), quando il problema di base era che non pioveva e non piovendo il particolato non spariva dall’aria; ma sulla pioggia non ci sono decreti o ordinanze che tengano, e ci si doveva accontentare di piccoli risultati. Dopo la pioggia, il problema se ne è andato via coll’acqua piovana, ma non è sparito quello dell’inquinamento e soprattutto dello spreco delle risorse che viene da una scarsa educazione civica all’uso delle fonti di calore meno inquinanti, e soprattutto all’uso parsimonioso che non significa fare i pezzenti ma non sputare sulla ricchezza che la natura ci regala, sperperandola.



Per non parlare dell’emergenza-scuola, dove è stato un bene vedere un alto numero di assunzioni, ma un bene forse di corto respiro se non si torna a dare agli insegnanti il gusto di insegnare, ripensando la scuola nel suo scopo, nel suo rapporto con la fisiologia del bambino e dell’adolescente (costretto al chiuso per metà giornata o ad imparare con poca motivazione), e non solo (massimo dell’innovazione!) le forme tecniche di didattica.

Ritorneranno presto, purtroppo, altre emergenze: fiumi in piena o ponti che crollano, e ci ritroveremo a rincorrere il livello degli argini invece di agire sulla deforestazione e la cementificazione irrazionale. Ci troveremo ad essere angosciati dal prossimo annunzio di epidemia catastrofica, come avviene da due o tre lustri in cui l’aviaria o la suina o la mucca pazza, o l’H1N1 avrebbero dovuto far sparire il genere umano a sentire alcuni commentatori invece siamo ancora qui, ma poco si è fatto per educare le persone ad una vera cultura della salute. 



Ci ritroveremo (ci ritroviamo) alle prese con l’emergenza criminalità o l’emergenza immigrazione. Ma non si potrebbe trasformare la politica delle emergenze in un’emergenza della politica a pensare in grande o almeno su periodi medio-lunghi? Delle facoltà di Scienze della politica hanno istituito nel presente anno accademico corsi di laurea intitolati alla “Governance delle emergenze”; sarebbe bello vedere dei corsi di “Introduzione alla prospettiva politica a lungo termine”.

Certo, i programmi a lungo tempo costano e qualche volta si rischia che chi li ha iniziati non venga ringraziato perché governi, amministrazioni, direzioni di aziende cambiano rapidamente, e questo frena, se la politica mira al consenso e poco più; ma ameremmo vedere il giorno in cui la politica vorrà usare le forze che ha per guardare oltre e costruire nuove culture, nuove dinamiche, e non solo nuove soluzioni transitorie.