E’ stato un cameo di Quo Vado, ma dice tutto. Checco Zalone è in Norvegia e con la compagna va in un ristorante che ha l’insegna di cucina italiana. Ordina gli spaghetti, ma dalle sue espressioni di disgusto sembrano immangiabili, anche perché non usano farli bollire nell’acqua. Quando esce dal locale si accanisce contro l’insegna e stacca il nome italiano, con lo stupore dell’improbabile oste. Dice tutto questa immagine, perché la vocazione dei nuovi cuochi italiani è proprio quella di andare a portare l’originale nei paesi del mondo.



Questo è il margine di miglioramento che può giocare il nostro Paese, anche se il fattore nostalgia può fare dei brutti scherzi. Ma chi non vuole tornare nei suoi luoghi di origine? Mio zio Domenico, mezzano di tre figli, fu destinato a cercare fortuna alla Merica – mi raccontavano i genitori – e appena ebbe guadagnato qualcosa vendette la casa pur di tornare al paese per vedere la mamma, per l’ultima volta. Il film di Checco Zalone ha messo in luce tanti aspetti del nostro Paese e in qualche modo ci ha ricordato Alberto Sordi, nel racconto dei vizi italici.



Ma un comun denominatore rimane: la cucina è il collante, il linguaggio che trasforma le situazioni, il descrittore della memoria. A Capodanno eravamo a Matera, per tre giorni. E lì abbiamo toccato con mano la forza della memoria che sa persino trasformare quella che nel Dopoguerra era indicata come la vergogna d’Italia, i sassi, in uno dei posti più belli del mondo. Ma se attorno a quei sassi non ci fosse stato l’attaccamento, che ne ha disegnato l’architettura, oggi non ci sarebbe la febbre di investire in una ristrutturazione e, naturalmente, in un ristorante.

Ci si chiede spesso cosa si potrebbe fare per il Sud. Basterebbe lasciare al pubblico la capacità di fare regia anziché regalia e d’improvviso si vedrebbe un’Italia che converge a creare quel binomio vincente che si chiama agricoltura e turismo.



Sembra la scoperta dell’acqua calda, eppure è così: dalle radici rinasce l’albero rinsecchito. Ma guai a mortificare le radici, a gettare un colpo di spugna su quella che è la storia di un Paese, che è fatto di comuni, di comunità, di piazze, di genius loci.

Persino Francis Ford Coppola, mito del cinema, ha investito nella sua Bernalda, un paese a mezz’ora da Matera, dove dentro Palazzo Margherita ha aperto Cinecittà. Un luogo dove si mangia benissimo, che è la prosecuzione delle radici di un uomo che ha avuto successo, in America.

Quando nel 1991 andai nella casa di campagna di Coppola in California, vidi la chiave di questa sua scelta. Il vino. S’era messo a fare il vino, che più che un business era una stretta di mano con chi lo aveva preceduto.

Poi, cinque anni fa, con l’occasione del matrimonio di sua figlia, ha fissato quello che si chiama principio di restituzione: un luogo nel cuore del suo paese, dove da poco era nato un altro Relais, il Giamperduto, dei fratelli Montemurro, che a loro volta hanno ristrutturato un altro palazzo antico.

E la storia continua, con il filo rosso di una cosa italiana che si chiama ospitalità. Ce l’abbiamo nel sangue. E su questo elemento che è nel nostro Dna bisogna scommettere, ma anche creare le condizioni (e qui la politica qualcosa può fare) perché il Paese ritrovi la sua vocazione. Allora si che diventa chiaro ”Quo Vado?”

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