TBILISI (Georgia) — Nessuno lo avrebbe mai immaginato così, l’incontro tra i due vecchi: il Papa argentino che scende dalla scaletta dell’aereo per la seconda parte del suo itinerario nel Caucaso e Ilia II che si strascina sulla pista per abbracciarlo. E poi le benedizioni reciproche nella sede fiammeggiante del patriarcato ortodosso georgiano con il Catholicos, piegato dagli anni e dalla fatica alla guida di una Chiesa riottosa ai cambiamenti, arroccata su posizioni antistoriche, e il pontefice che si protende, come d’abitudine, per sostenerlo. Pietro che prende il braccio di Andrea per accompagnarlo lungo un corridoio che diventa simbolo della strada da compiere verso l’unità. Le chiese che si incontrano e si riconoscono sorelle oltre le incomprensioni del passato, i preconcetti e le ostilità. 



Sarà un viaggio dei gesti e delle icone, quello iniziato ieri nelle repubbliche caucasiche che mancavano all’appello nell’agenda di Francesco. Georgia e Azerbaijan, uno dei paesi campioni del cristianesimo apostolico, che già nel 337, ben prima dell’editto di Teodosio, si riconosceva nella fede del Nazareno, elemento unitario di identità e autorevolezza, e la nazione a maggioranza islamica cerniera tra mondo arabo ed Oriente. 



Francesco si approccia con la solita libertà, e un’incoscienza che gli viene dalla fiducia nell’essere umano e naturalmente in Dio. Probabilmente non ha potuto evitare di far cadere lo sguardo sul gruppetto di irriducibili asserragliati fuori dall’aeroporto, i fondamentalisti ortodossi che da giorni mettono in guardia come gufi “dall’aggressore vaticano”, ancora drammaticamente arpionati ad una distanza che è stata cancellata da decenni di cammino e riflessione comune. Completamente vestiti di nero, accompagnati dai propri pope con tuniche impolverate e capelli lunghi e incolti, sventolano cartelli che con la scrittura gentile e ricamata annunciano cose terribili. Come l’arrivo dell’anticristo vestito di bianco. Sono i rappresentanti di quella frangia della chiesa ortodossa georgiana incapace di superare il disagio per una visita percepita come invasiva, e di guardare oltre i confini posti dalle passate incomprensioni per intraprendere nuovi passi sul sentiero ecumenico. Gli stessi che hanno costretto il Patriarca Ilia II a non ritenere opportuna una liturgia comune con Francesco, da sempre arroccati in un intransigentismo astorico che ha fatto perdere ben altre occasioni. Nel 1997 fu proprio l’ala dura del Santo Sinodo della Chiesa ortodossa georgiana a costringere il povero patriarca al ritiro dal Consiglio mondiale delle chiese e dalla Conferenza delle chiese europee. Gli stessi che tennero in ostaggio Ilia II anche durante la visita, due anni più tardi, di Giovanni Paolo II nel paese. Allora il Catholicos ritenne inopportuno recarsi a omaggiare l’ospite già all’aeroporto.  



Ieri le cose sono andate diversamente: quasi 20 anni di dialogo ecumenico separano i due viaggi, ma molti dei problemi di allora permangono. La chiesa georgiana è tra le più tradizionaliste, fiera di un’identità saldamente intrecciata al Vangelo, ma scontrosa persino all’interno delle chiese autocefale ortodosse. La mancata presenza al recente Concilio panortodosso del giugno scorso, a Creta, dei georgiani, ha posizionato la Chiesa georgiana su posizioni oltranziste e conservatrici, rendendola apparentemente ancora più dipendente da Mosca che nel passato. L’approccio di Francesco, il far suo lo “Spirito di Assisi” fatto di cordialità, gesti e premure, può scalfire questo apparentemente incrollabile muro di diffidenza. Ieri ha già iniziato con la commozione per la bellezza di un’Ave Maria, composta dal fratello nella fede, per quella tenerezza mostrata verso l’anziano e acciaccato Ilia, per la facilità con cui è riuscito a scucire una sincera e appassionata benedizione su di lui e sulla Chiesa di Roma. Se c’è qualcosa che Francesco riesce a fare alla perfezione è costruire i ponti e qui, a Tbilisi, ha coinvolto Ilia II nel comune impegno per far rifiorire la croce ricurva portata da santa Nino nel Caucaso.

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