Caro Dario, l’unica tua opera che conosco ancora oggi è Mistero Buffo (non ho problemi ad ammettere la mia ignoranza: non è il caso di metterla sempre giù dura, come mi hai insegnato anche tu).

C’è già stato e ci sarà, spero per lungo tempo, chi, più competente di me, approfondirà il tuo lavoro, la tua arte, il tuo genio. Su quel capolavoro che ti ha reso famoso, posso solo dire che da donna cattolica che tiene alla sua fede, suggerirei di usarlo per le lezioni di catechismo perché penso insegni la cosa più importante di ogni religione: non rinunciare a dire “io”, a vivere in modo personale, libero e critico.



Quello che vorrei proprio ricordare, non è una delle tante cose che ti ha reso famoso, dal Nobel all’impegno artistico, civile e politico, ma l’opera privata che ti ho visto realizzare e per la quale hai e avrai sempre un posto particolare nella mia memoria e nel mio cuore.

L’opera che merita di essere raccontata è quella dello stalker. Sì, proprio quell’attività perseguibile penalmente che consiste nell’assillare qualcuno, ma che nel tuo caso è stato un puro gesto di amicizia gratuita e sconfinata. Un amico comune si era ammalato ed era bloccato in casa, non perché non potesse spostarsi, ma perché la malattia lo aveva reso insicuro e impaurito. Tu capisti subito il problema e iniziasti a telefonargli per convincerlo a raggiungerti nella tua casa al mare a Cesenatico. Era il mese di giugno. Io andavo spesso a trovarlo e mi capitò di incappare nelle vostre telefonate: “Hai deciso?” chiedevi. “No, non ancora”, rispondeva l’altro. E tu: “Non c’è problema. Ti richiamo domani. A che ora preferisci?”. E lui: “verso l’una”. “Benissimo, verso l’una ti richiamo”. Il giorno dopo, verso l’una richiamavi. E così per giorni e giorni. Preso per sfinimento e, più realisticamente, travolto da un affetto che gli aveva ridato vita e gusto di rischiare, lui accettò. E mi chiese di accompagnarlo. 



Quando arrivammo, in piena estate, tu, Franca e i vostri collaboratori eravate in una fervente attività lavorativa: c’erano dipinti ovunque, bozze di libri da correggere, incontri da preparare. La tua presenza mi intimidiva, non perché tu non fossi alla mano, anzi, lo eri con tutti, ma perché la tua curiosità e il tuo voler carpire ispirazione da tutto, ti rendeva uno spettacolo da guardare.

Naturalmente il nostro amico passò con te e Franca dei giorni bellissimi che lo aiutarono a riprendere forze. E io ricevetti un regalo: uno dei tuoi disegni raffiguranti una Madonna con Bambino e con una dedica: “A Silvia mistica”. Non ho idea di cosa avessi in mente, del perché me lo scrivesti. Non avevamo nemmeno conversato a fondo, solo scambiato qualche breve battuta.



Quell’aggettivo lo sentii mio e mi fece contenta, ma mi fece anche rendere conto che la tua grandezza era volere tutto. Avevi voluto il tuo amico lì con te, senza pensare di fare niente di speciale, se non accettare e condividere con lui il mistero di quel momento che stava attraversando.

Quando il nostro amico morì, il tuo immane dolore non ti impedì di dedicarmi tempo e parole piene d’affetto e conforto. Quando morì la Franca io non seppi dirti niente, mi misi in fila alla camera ardente e quando arrivò il mio turno seppi solo abbracciarti. Ci guardammo un attimo e poi me ne andai. Forse ci eravamo già detti tutto.