Gira voce negli ambienti sportivi — lo conferma nel suo ultimo libro Il mio basket (Dalai, 2012) Sandro Gamba — che non ci sia nulla di meglio dell'”allenare un orfano”. Un caustico luogo comune che fotografa le condotte di tanti genitori che non sanno far a meno di complicare la vita ai figli. Tuttavia, come altre apparenti verità, anche questa non coglie nel segno, scambiando un dato statistico con la riuscita di un’ambizione. Nomi come Mazzola, Meneghin, Maldini, Sacchetti, Cagnotto e per tagliare corto Bryant (Kobe e papà Joe), sono sufficienti per rendersi conto che la statistica non dice la verità. Almeno non tutta. Nell’elenco manca volutamente il nome Rossi, che negli ultimi due decenni gli italiani hanno imparato ad associare a Valentino e Graziano, dopo averlo indissolubilmente saldato al Pablito dei Mondiali di calcio 1978 e 1982.
Domenica scorsa si è chiusa definitivamente in Giappone la speranza per Valentino Rossi di aggiudicarsi il campionato MotoGP (e con esso il decimo alloro mondiale). Il titolo è finito, con merito, nella cesta dei trofei del ventiduenne Marc Marquez, al suo quinto titolo. La delusione in casa Rossi è immaginabile, ma con tre cadute e un motore fuso è impossibile vincere un mondiale.
Ad ogni modo nella “marea gialla”, la schiera dei tifosi che segue il Dottore da ogni angolo del mondo, continuano a prevalere l’ammirazione, lo stupore e l’entusiasmo per l’indomito trentasettenne di Tavullia, che ha trasformato il MotoGP da sport d’élite a sport popolare. Un’avventura iniziata nell’infanzia, ovvero nel passato remoto di Valentino, per opera del padre Graziano, pilota di talento anche se non vincente come il figlio. “Più incline all’applauso che al risultato, più da pole che da podio, grande staccatore e piegatore da brivido, corse perse per impennate e traversi da circo, avido esibizionista e showman in pista e fuori”, così lo descriveva tempo fa Massimo Falcioni su motoblog.it.
Graziano ha sfiorato il titolo mondiale in sella alla Morbidelli 250. Dopo alcune importanti vittorie in 500, ha lasciato le due ruote a 26 anni in seguito ad alcuni incidenti: in pista a 270 all’ora con una Yamaha della scuderia Agostini e in auto l’anno prima. È lui che ha fabbricato a Valentino il primo go-kart trascinando il figlio in gare con gli amici piloti. “Andava come un missile” e ci batteva, racconta il padre con orgoglio in una delle tante interviste. Ed è ancora lui a metterlo in moto a non ancora tre anni. “Vacanze con Valentino non ne ho mai fatte, ma viaggi tanti”, aveva confidato Graziano in Il distacco incolmabile, il breve racconto incluso, con altri venti di genitori separati e nuclei monoparentali, nel libro smALLholidays. Vacanze a geometria variabile (Cinquesensi, 2015).
In poche pagine e senza tanti giri di parole Graziano racconta del distacco che Valentino gli ha imposto a seguito della separazione dalla moglie Stefania, tagliandolo fuori senza scampo dalla dimensione famigliare, né più né meno come in un sorpasso in curva, dopo una staccata, di cui anche Valentino è maestro, cercando immediatamente il cordolo per chiudere ogni porta ai nuovi arrembanti assalti dell’avversario.
Ma tra i due il feeling non è mai venuto meno. Per raccontare questo sodalizio i media parlano di complicità, dal momento che la Cultura — dominante ma dopo tutto fallimentare — a livello mondiale, non sa trovare miglior aggettivo per indicare un’amicizia interessata, operosa e produttiva. “Dopo gli 11 anni non gli ho insegnato più nulla. Ha fatto tutto da solo”. Graziano parla di Valentino e della moto, ma sulla solitudine credo abbia trasmesso ben altro al figlio, perché la sua presenza è costante anche quando silente. Dopo lo scandalo fiscale del 2007, quando l’agenzia delle entrate contesta a Valentino 122 milioni di tasse evase (transate poi con 35 milioni), il prodigo Valentino torna a far riferimento al padre che per qualche tempo riveste anche la carica di Ad della società VR46, che cura gli interessi del campione e ne promuove l’immagine attraverso una rete internazionale di merchandising.
L’idea poi “di fare da solo” non fa parte dello stile trasmesso da Graziano, che non si limita alle staccate. Valentino sa bene che anche nel Campionato mondiale piloti, rigorosamente individuale, non si vince da soli e ne ha dato una prova nel Gran Premio di Misano 2016, indossando in gara un nuovo casco con l’immagine, in versione Blues Brothers, sua e di Uccio (Alessio Salucci): l’amico di sempre, che ha lasciato il lavoro nella ditta di famiglia per fare carriera come assistente del campione: da responsabile del motorhome a gestore dello Sky Racing TeamVR46 e dell’Academy VR46, la scuola internazionale per giovani talenti voluta da Valentino. Quella con Uccio è la storia di una partnership che profuma di parabola dei talenti: “sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto” (Mt 25, 23), con buona pace degli puritani nostrani che sul web si scandalizzano che “un maggiordomo da motorhome possa vantare un conto corrente da industriale”.
Il riconoscimento del padre da parte del figlio è, come noto, simbolicamente riassunto nella scelta di Valentino di correre con lo stesso numero 46 utilizzato da Graziano nelle competizioni. È invece meno noto che Graziano Rossi sia anche maestro elementare. “Mai insegnato però, per fortuna dell’umanità”, commenta ancora ironizzando nel dialogo con l’amico e giornalista Falcioni. Un’ironia, la sua, che mentre apre ad ampie considerazioni sulla differenza tra insegnare e trasmettere, fa riflettere sullo status di una civiltà che non è in grado di comporre l’amicizia con la partnership. Sta circolando sul web una freddura di Carl Icahn, ottantenne finanziere multimiliardario, sostenitore di Donald Trump: “Se cerchi amici, ti compri un cane, non fai affari”. Una frase ruvida con miliardi di fan al mondo che non credo il Dottore sottoscriva.