La condanna a trent’anni di carcere è il massimo della pena che si poteva infliggere a Veronica Panarello per il reato di omicidio volontario e occultamento di cadavere stabilito in un processo con rito abbreviato. L’omicidio è quello del figlio, Loris Stival, 8 anni, avvenuto nella casa di famiglia di Santa Croce Camerina (Ragusa) il 29 novembre del 2014, quando il bimbo aveva otto anni e la mamma 27. Il pm aveva chiesto anche la premeditazione, ma non l’ha ottenuta; ha ottenuto egualmente i trent’anni invocati. Ma non ha brindato alla vittoria: la storia è troppo tragica.



Il marito, Davide Stival, che intanto si è separato, forse di anni di galera ne avrebbe voluti 50, comunque gli andrebbero bene un paio di milioni per i danni derivanti dal dolore subìto: sì, due milioni, a tanto ammonta la sofferenza. Papà Andrea, suocero di Veronica, punta a un secondo processo contro la nuora per calunnia. Già perché Veronica ha anche sostenuto che lui, il suocero, era suo amante e assassino del piccolo che li avrebbe beccati, poer ninìn, in actu exercito. Personaggi gretti di un triste spettacolo dove non esistono i buoni e i cattivi. E dove non compare più nemmeno non dico una struggente tenerezza ma uno straccio di ricordo, toh, di citazione, della povera vittima innocente: il piccolo Loris. Quel dolore innocente metterebbe di fronte al mistero. Invece i nostri personaggi chiedono una giustizia a loro misura e possibilmente utilità, che gli dia piena soddisfazione (in euri o in ulteriori anni di galera alla reproba). Ma né i soldi né l’occhio per occhio scioglieranno mai il loro grumo di rabbia.



Non è la condanna da guardarci dentro per decidere chi e quanto ha ragione o torto. E’ il volto di lei, quello ancora del giorno dell’arresto, il capo arrovesciato all’indietro, il volto straziato, stravolto e quasi sfigurato da un abisso imperscrutabile di dolore, certamente, ma anche non sapresti dire se di malvagità, di follia, di smarrimento di sé. Di disperazione, certo. Come un urlo di Munch, ma come più miserabile e del tutto privo della grandezza cosmica del dipinto; o una Eva di Masaccio cacciata dal Paradiso, ma come più banalmente inebetita e lontana dalla sua vertiginosa universale tragicità.



E’ quello di mamma Veronica, probabilmente, il volto e l’urlo delle non poche a disgraziate mamme veroniche, disperate o impazzite, che hanno ucciso anche in maniera efferata i loro figli piccoli, da Anna Maria Franzoni (Cogne, 2002), agli altri episodi di Merano e Lecco (accoltellamento e annegamento, 2005), Parabiago (strangolamento, 2009), Venezia (soffocamento, 2010), Orbetello (annegamento, 2011), Lecco (colpi alla testa, 2013), Calabria (tagli con le forbici). 

Tutte donne che non hanno saputo reggere il rapporto più intimo e profondo che ci sia nell’esistenza umana, quello della madre con il proprio figlio. Ci sarà malvagità, follia, menzogna — e chi può misurarle?, ma c’è l’incapacità ad attraversare la fatica quotidiana di un bimbo da crescere, una casa da governare, un marito da amare, magari una depressione da tenere a bada, e goderne anziché esserne stroncati. E come si fa a farcela se facilmente si è vittime della propria profonda “insicurezza esistenziale”, per usare i termini di Zygmunt Bauman, spesso legata alla solitudine, al non sentirsi amati e abbracciati per quello che si è, alla mancanza di amicizia, così normali nelle nostre relazioni formali o chattanti?

Ecco, il volto e l’urlo di Veronica ultimamente non chiedono chi ha ragione e chi ha torto, come ci si fa giustizia o come ci si fa risarcire, ma come si fa a vivere. Scappare da questa domanda è la più tragica delle menzogne, per tutti.