“Mutano il cielo, ma non l’animo coloro che corrono oltre il mare”. Il verso di Orazio, ripreso poi da Seneca, espressione di una cultura e di una società poco proclive agli spostamenti, più interessate ad attività stanziali vale ancora oggi, a venti secoli di distanza e soprattutto quando, dopo aver raggiunto la Luna, ora la tecnologia esplora Marte e già si prevedono viaggi su questo pianeta affascinante?



Sarebbe ingiusto negare la verità di come sia illusorio ritenere di risolvere i problemi interiori cambiando aria.

Ma il mondo in cui viviamo ora è molto più dinamico di quello degli antichi, vive di fretta: la mobilità è sua caratteristica, sia che si tratti di migrazioni forzate, di impegni di lavoro, di ricerca di bellezze naturali, di desiderio di evasione. Anche i risultati dell’attività scientifica avanzano con molta velocità.



Questa Terra sulla quale viviamo spesso sradicati è diventata troppo piccola per le esigenze della ragione e della scienza. La giusta ambizione che spinge gli uomini a oltrepassare i confini del già noto ora punta gli occhi verso cieli molto lontani e sfrecciano a velocità impensabili oggetti adatti all’esplorazione dei pianeti per potervi un giorno mettervi piede. Tutto ciò è meraviglioso, dai calcoli alla precisione dei tempi, dalla genialità di chi progetta all’abilità di chi costruisce. La ricerca spaziale parla dell’intelligenza umana con un linguaggio molto chiaro: sempre più in là.



Tuttavia le imprese spaziali di cui in questi tempi tanto si parla possono suggerire qualcosa di molto vicino al detto antico e forse vi aggiungono qualche corollario.

La frenesia fisica e intellettuale in cui siamo immersi è in stretto collegamento con un vizio molto lontano, addirittura opposto all’apparenza: l’accidia, ovvero la pigrizia spinta all’estremo, quella che tocca l’intimo dell’uomo, là dove si cela il suo orientamento nei confronti della vita e del suo significato. L’accidia metafisica può coesistere con l’attivismo più sfrenato e genera la svagata inquietudine dello spirito, l’instabilità del luogo in cui stare, la volubilità nelle decisioni prese, l’eccessiva verbosità. Alla sua origine vi è la tristezza di chi da lungo tempo ha cercato in ogni modo di sottrarsi a Colui che è e ora rimane nel buio di una malinconia inerte. Ma poiché, come afferma San Tommaso, nessun uomo può abitare nella tristezza, si agita da ogni parte cercando consolazione in altro modo.

Questa ipotesi di lettura che viene dai tempi di Aristotele ed è stata ripresa più volte in età classica, medievale e fino a oggi può gettar luce su tanti fenomeni del nostro tempo: l’apatia giovanile, la droga, l’allentarsi dei vincoli familiari, l’affarismo, l’evasione in mondi paralleli, la comunicazione onnipresente, il sogno di spingersi sempre più lontano nell’universo… 

Tutto, o quasi, lecito e comprensibile. Ma l’animo non muta, avverte Orazio. Ci vuole altro per vincere l’accidia. Scriveva a questo proposito il cardinale Ratzinger nel 1989: “Più importante è il fatto che la diagnosi indica anche la via della guarigione. Soltanto il coraggio di ritrovare la dimensione divina del nostro essere e di accoglierla può ridare alla nostra anima e alla nostra società una nuova intima stabilità”.

Vale a dire ritrovare la magnanimità di chi si sa grande non solo perché va su Marte, ma soprattutto perché è stato pensato e voluto da Dio.