Non conosco Bebe Vio, e in genere, per una forma di difesa mentale, cerco di non seguire i personaggi in auge, quelli di cui tutti parlano, quelli che tutti invitano in  televisione, a parlare di tutto, dal referendum alla dieta vegana, dal dialogo coi musulmani ai tattoo. Peggio se sono giovani, e ne fanno i testimonial della bella gioventù, quella che ha energia e coraggio e sfonda, altro che i bamboccioni o gli sfigati che non trovano lavoro in quest’Italia che va avanti, e di lavoro ne offre tanto e buono.  



Una delle invitate al super dinner alla Casa Bianca, nel sancta santorum, lei ragazzina, lei che non potrà mai essere trombona, lei esibita in abito da sera Armani, marchio dell’Italia che si sogna. Eppure, ho guardato le foto, rapita da quel sorriso. Ho guardato le foto del ricevimento e le foto sue, da quando era piccola. 



Lei sulla carrozzina che tira di scherma, ed esulta per la vittoria. Lei che abbraccia il papà, e l’allenatore, lei che sfoggia un taglio sempre nuovo di capelli che le incorniciano quel visino delizioso, lei che ha cicatrici devastanti che sembrano un ornamento, lei che sprizza dagli occhi una felicità che non pare possibile, che non riusciamo a metabolizzare. Senza gambe. Senza braccia, a 11 anni. 

Si muove con eleganza e sprezzatura, con la tuta dell’Italia o le gonne lunghe, ma bisogna pensare la fatica, il bisogno di aiuto costante, il dolore in ospedale, le lacrime, i tanti pensieri in quella testolina di adolescente che ha dovuto affrontare una storia più grande di lei, e insostenibile. 



I nostri ragazzi si guardano allo specchio, si specchiano negli sguardi dei loro amici. Sono brutta. Ho le gambe storte. Ho i brufoli. Ho i denti storti. Sono goffo. Sono impedito. Come si guarda, Bebe. Come pensa all’amore, perché tutti pensano all’amore. Quanta forza ci vuole per allenarsi. Gareggiare, mostrarsi in pubblico. Per non avere paura. 

Mi scandalizza e commuove quel suo sorriso, così pieno di coscienza, di dolore vissuto e superato. Anche alla Casa Bianca. Non era un Oscar qualsiasi o un campione sportivo qualsiasi, anche se plurimedagliato, non serviva da contorno alla vetrina del made in Italy, sempre formale  e un po’ kitsch, sempre unfit perché impacciata, complessata, nei saloni della prima potenza mondiale. Era Bebe, solo lei. Una ragazzina felice di vedere il mondo, di conoscere dei miti, di indossare un bell’abito, innalzare un calice di champagne. Non so come sia possibile, ma era proprio felice, l’unica evidentemente felice. L’unica che non recitava.

Ho letto in questi giorni un pesante, intenso librino di Paolo Di Paolo, Tempo senza scelte. Tempo che le scelte non te le mette davanti, e ti impedisce di farle. Tempo povero di maestri e di baldanza, tempo di paure che frenano ogni slancio. Poco eroismo quotidiano, molto accontentarsi di quel che c’è, di quel che afferri strappandolo ad altri, con rabbia. 

Bebe Vio sceglie ogni giorno, e non di vincere, ma di essere nella realtà che le è data, di assumerla e abbracciarla, senza muri, senza scontri. Riesce a gustare le piccole e gradi cose che può gustare. Come dovremmo tutti. Per questo la sua risata, i suoi occhi birichini che sprizzano sono così scandalosi ci fanno vergognare di tutte le nostre lamentele, della rinuncia a cercarla, la felicità.