Palermo è la città italiana in cui è aperta ed opera da più tempo una moschea. Si deve, infatti, al cardinale Salvatore Pappalardo l’iniziativa alla fine degli anni ottanta di cedere la chiesa sconsacrata di San Paolino dei Giardinieri alla Regione Siciliana, la quale stabilì un accordo con il governo tunisino attraverso il consolato di Palermo. La ristrutturazione si concluse nel 1990 e da allora la gestione è esercitata direttamente dal governo tunisino per il tramite dell’Associazione culturale islamica. Nella moschea si raccolgono gran parte degli immigrati islamici. Fino ad alcuni anni fa l’imam che ne aveva la cura era un funzionario del consolato tunisino. Adesso è Boulaalam Mustafà, 40 anni: originario del Marocco, da otto anni vive a Palermo, dopo un lungo soggiorno nella capitale francese. Personaggio di spicco della comunità islamica palermitana, più volte ha manifestato in pubblico la sua condanna per il terrorismo e ha preso le distanze dagli attentati di matrice islamica di questi ultimi anni, anche portando la sua gente in piazza. 



Gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua storia e quella di tanti immigrati che vivono a Palermo. L’appuntamento è proprio in moschea. Pochi gradini e si entra subito in un altro mondo. Mustafà mi invita a lasciare le scarpe all’ingresso e ci avviamo verso le due sedie che ci attendono. Gli chiedo a questo punto che mi racconti la sua storia.



“Frequento questa moschea — inizia — dal primo giorno che sono arrivato a Palermo, e solo dopo ho preso il posto di un altro imam che dipendeva dal consolato tunisino. Sono venuto a Palermo per lavorare in modo assolutamente legale. Fin dall’inizio ho desiderato rendere un servizio ai musulmani presenti in città e ho iniziato a raccoglierli attorno alla moschea; molti non sapevano neanche che esistesse. A Parigi ho completato i miei studi, a Palermo ho iniziato a lavorare, in modo autonomo, non dipendente. La mia attività in moschea è volontaria, cioè non è retribuita; insomma, vivo del mio lavoro”.



“Quando sono giunto a Palermo — prosegue — non sapevo dell’esistenza di questa moschea. Dopo essermi informato ho iniziato a frequentarla e a richiamare anche altri. Adesso è quasi sempre aperta, ma otto anni fa era il contrario. Per iniziare il lavoro con gli altri fratelli sono andato all’Ufficio anagrafe del Comune e ho chiesto i riferimenti dei residenti in città di coloro che provenivano da altre nazioni di fede musulmana. Mi sono accorto che erano tanti e ho iniziato ad invitarli a venire in qui per pregare”.

Quale risultato voleva raggiungere?

Il mio pensiero e intendimento fin dall’inizio è stato quello di mostrare a tutti la bellezza dell’islam, per fare in modo che innanzitutto i miei fratelli non pensassero che l’unica cosa importante nella vita è il lavoro. Pian piano ho riunito queste persone a partire innanzitutto dai quartieri in cui abitano e di conseguenza dalla loro provenienza per zone geografiche e per nazione.

Che significa “mostrare a tutti la bellezza dell’islam”?

Significa conoscere e capire i contenuti del Libro sacro e fare in modo di giudicare di conseguenza la realtà, cioè come ciascuno deve comportarsi. Fare vedere a tutti che i contenuti della fede aiutano a vivere meglio, non sono un ostacolo a vivere bene, e che proprio perché belli possono essere comunicati e condivisi da tutti. In altri termini: non basta credere a parole, ma è necessario partire dal proprio cuore, occorre che la fede riparta ogni giorno dal cuore, perché diventi corrispondente al desiderio che ciascuno vi porta dentro.

 

E adesso?

Adesso abbiamo 11 punti di aggregazione, che chiamiamo Centri di cultura islamica e che sono dislocati prevalentemente nei quartieri del centro storico. Ma il nostro obiettivo è la costituzione di un Centro di cultura islamica di livello cittadino, attraverso cui avere rapporti e rendere servizi non solo ai musulmani palermitani, ma a tutti i palermitani, indipendentemente dalla fede che professano.

 

Qual è il rapporto con le storie e le tradizioni di coloro che giungono a Palermo?

Chi giunge a Palermo come in qualsiasi città europea ha diritto a conservare le proprie tradizioni, sia religiose che culturali. Ma nella convivenza con altre culture deve tener conto di come la sua debba certamente conservarsi, ma anche relazionarsi con le altre e giungere a forme di integrazione. Non si può vivere a Palermo come se si fosse rimasti in un villaggio del centro dell’Africa.

 

Ha avuto modo di incontrare ostilità o difficoltà con le famiglie di bambini di altre religioni, lei che ne ha uno di 8 anni?

Conoscere altre tradizioni e rispettarle è la prima e più importante cosa da fare. Ma vivere anche le nostre tradizioni aiuta spesso a superare eventuali divisioni che possono insorgere e a intraprendere azioni di integrazione all’interno del contesto in cui viviamo, come è il quartiere in cui abitiamo e dove si trova la scuola elementare.

 

E la sua religione in questo campo è di ostacolo o di aiuto?

In questo la mia religione mi aiuta perché mi spinge sempre a farla conoscere in tutta la sua bellezza a chiunque incontro. Certo questo non vuol dire seguire e sottomettersi alla modernizzazione, ma non vuol dire neppure vivere in un luogo ignorando gli elementi di cui è costituito. Voglio precisare che le eventuali difficoltà non dipendono dalla religione.

 

E questo riguarda la totalità degli immigrati che vivono a Palermo?

Questa descrizione non si può applicare ai giovani della seconda generazione, quelli cioè che hanno tra 15 e 30 anni. Ci siamo resi conto che è necessario creare per loro dei percorsi formativi, attraverso cui possano imparare a rispondere alle domande più urgenti che vengono dalla società. Sono certamente islamici perché lo sono diventati in famiglia, ma molti non frequentano la moschea, non conoscono bene i contenuti del Corano e soprattutto, come ho detto prima, non sanno rapportarsi con la società in cui vivono.

 

E come è nata questa idea dei corsi? 

E’ venuta dopo gli attentati di Parigi, perché questi ragazzi non riuscivano a capire e quindi a giudicare cosa fosse accaduto. Per intenderci, molti sono nati in Italia da famiglie musulmane che hanno dato loro una fede che però non è capace di giudicare quanto accade loro. Sono musulmani per tradizione, non per convinzione.

 

E come vivono il rapporto con la nostra società?

Fanno molta difficoltà a resistere alle “tentazioni” della modernizzazione, perché vivono a stretto contatto con altri giovani che hanno stili di vita diversi da quelli delle loro famiglie, ma che hanno su di loro una forte attrattiva. Hanno da una parte una conoscenza insufficiente dei principi religiosi dell’islam, ma hanno fortunatamente ereditato dalla famiglia una sana concezione della vita e della vita sociale per cui non esistono fenomeni di devianza, ed anzi, da un certo punto di vista, si possono definire “buoni cittadini”.

 

Può essere più preciso?

In concreto: praticano la solidarietà, l’amicizia, il rispetto degli anziani, l’attaccamento alla famiglia, il rispetto dei principi della convivenza civile e sociale. Non a caso a tutti, oltre a quanto comunicato negli incontri, abbiamo proposto di fare volontariato. Hanno accettato di buon grado e per almeno 5 o 6 volte siamo stati all’Ospedale dei bambini, oppure abbiamo pulito alcune zone del quartiere; un volontariato per così dire “civile” per rendere un servizio alla città.

 

E quali temi avete affrontato?

Abbiamo parlato del come accogliamo gli altri, del servizio che possiamo rendere agli altri, delle possibilità di lavoro che ci sono in città. Noi vogliamo cambiare lo sguardo che abbiamo verso la società.

 

E come comunicate i principi religiosi dell’islam?

I principi della nostra religione vengono trasmessi come ho detto innanzitutto dalla famiglia, ma ci siamo accorti che oggi questa modalità non basta, perché non frequentare la moschea significa conoscere meno ad esempio i contenuti del Corano. Tutte le famiglie hanno una copia del Corano a casa, ma non è detto che tutti i componenti lo leggano e lo conoscano. Il Libro sacro è comunque un punto di riferimento, ma oggi la sua lettura è sostituita da mezzi più moderni come la televisione: in tutte le case c’è la possibilità di seguire una tv che trasmetta insegnamenti islamici.

 

Qual è il problema più difficile con cui dovete fare i conti?

Certamente quello dei permessi di soggiorno. Solo a Palermo ci sono più di 4mila pratiche di richiedenti che sono bloccate. In molti casi tutto ciò è una conseguenza degli attentati e del clima che ne è seguito. Ecco perché diciamo che i terroristi non fanno male solo agli europei ma anche agli immigrati. Ecco perché li condanniamo.

 

Da ultimo: vivete il sentimento della paura?  

Se si riferisce al problema degli attentati, no. O almeno lo viviamo tanto quanto tutti gli altri. La paura ci viene se pensiamo al futuro. Viviamo in una situazione di veloce e profondo cambiamento che spesso non riusciamo a capire e a guidare. Cambiano soprattutto le persone e il modo in cui ciascuno vive e giudica la realtà. Cerchiamo di stare insieme come comunità, sia civile che religiosa. Ma questo spesso non basta perché il contesto in cui viviamo ci costringe a essere consapevoli e convinti di ciò in cui crediamo, i principi dell’islam, e di come ci comportiamo. In questo senso la sfida di oggi è globale e riguarda tutti. Non è un problema di confronto tra le religioni, ma di confronto fra uomini, cioè di umanità in grado di reggere l’urto di quello che abbiamo chiamato modernizzazione, che non può essere demonizzata, ma nemmeno accettata supinamente.