La pioggia e la polvere dei crolli si mescolano alle lacrime di chi ancora una volta deve affrontare in prima persona la grande disgrazia del terremoto. Proprio in quei territori in cui una volta risuonò il canto di Francesco d’Assisi: “Laudato si’, mi Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba”.



Non sembra che la madre terra oggi produca fiori e frutti, ma “infirmitate e tribolatione”, per usare ancora le parole del Poverello. La visione francescana della natura è un idillio? Aveva ragione Leopardi a raccontare di una natura dal volto bello e terribile, del tutto indifferente alla sorte umana, matrigna ai suoi figli?



L’uomo che ha ricevuto da Dio il compito di dominare sulle altre creature e che esercita questo dominio con la conoscenza e con l’azione, buona o cattiva qui interessa meno, davanti al terremoto è in gran parte impotente. In una calamità naturale ripetuta e paurosa la ragione, anche quella del buon senso comune, è condotta a esitare tra due bestemmie, “negar la Provvidenza, o accusarla”, come Manzoni scriveva attorno alla peste del Seicento. Ma quelli erano tempi in cui l’azione di Dio era avvertita operare all’interno delle vicende umane. Ora molto meno. Ora si passa rapidamente all’azione di soccorso, alla cura, a porre rimedio come si può; ed è sotto gli occhi di tutti il fatto che l’Italia mostri il suo volto migliore proprio nella dedizione e nella generosità con le quali volontari e forze dell’ordine si prodigano da subito per alleviare le sofferenze di tanti nel bisogno.



Anche se in parte a quella domanda rispondono la conoscenza del sottosuolo e dei suoi movimenti, le previsioni certo non rassicuranti, le misure antisismiche con cui ricostruire, resta inevasa la questione prima: perché?

Don Giussani diceva che quando Dio manda un grande dolore è come se ci toccasse sulla spalla per invitarci a pensare a lui presente e, in modo più ardito, che talvolta bisogna perdonargli di farci soffrire, quando il dolore è troppo acuto o misterioso da accettare. E’ un insegnamento da tenere presente, perché la sofferenza è sempre alle porte della vita umana.

L’uomo che perdona a Dio: che paradosso, ma anche che coraggiosa affermazione della grandezza di una creatura che, a differenza delle altre, può dire sì o no.

Manzoni racconta che nel Lazzaretto, davanti a don Rodrigo morente, fra Cristoforo indica a Renzo l’alternativa posta da quell’agonia così misera: “Può esser gastigo, può esser misericordia…Forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione, d’amore”. La sorte dei tanti don Rodrigo è avvolta in un mistero profondo e forse il perdono di chi in vario modo è stato offeso è l’occasione in cui “la provvida sventura” può rendersi operante. 

Si dice questo in modo sommesso, come nel rispetto ma non a distanza dal grande dolore che colpisce l’Italia centrale da più di due mesi. Lo si dice usando le parole dei suoi grandi, che a loro volta conobbero la sofferenza. Lo si dice infine con la parola di Dio: “Le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità — non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa — e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”.

Dante stesso immagina che sul monte del Purgatorio un forte terremoto sorprenda il cammino di Virgilio e suo, tanto che “no’ istavamo immobili e sospesi”, proprio come accade sulla terra. Ripreso il cammino, “timido e pensoso”,  Stazio spiega che il tremore è dovuto alla gioia della natura per ogni anima che, compiuta la sua purificazione, si sente degna di salire al Paradiso.

Di là il terremoto è il contributo della creazione alla gloria di Dio.

Di qua è dolore e lutto, ma ciò può non escludere un bene per ora nascosto alla ragione, una speranza di pace.