Era solo un ragazzo. Un ragazzo fermato perché in possesso di stupefacenti, ma in condizioni tali che avrebbero dovuto spingere al ricovero immediato in ospedale. Epilettico, in evidente stato di denutrizione, faticava a camminare, era pieno di lividi. Altro che carcere. Processo per direttissima, ma viene decisa una nuova udienza. Intanto il carcere. L’hanno fatto visitare, questo sì, e i referti sottoscrivono altri lividi alle gambe, alle braccia, una frattura alla mascella, due alla colonna vertebrale, un’emorragia alla vescica. Di nuovo,  ricovero urgente. Il ragazzo rifiuta, ma chissà come e dietro quale fiacca insistenza. Lo portano in ospedale nell’ala carceraria, finalmente, dove però muore in condizioni tragiche: pesava solo 37 chili. La famiglia viene avvisata solo per chiedere l’autorizzazione all’autopsia.



Si era procurato ecchimosi e fratture da solo? Sbattendo contro i muri, senza che nessuno se ne fosse accorto? Improbabile. Ci sono testimoni che dichiarano sotto giuramento che era stato picchiato, con violenza. Perché? E chi? E perché il personale medico l’ha lasciato moire senza tentare alcuna cura, nemmeno quel po’ di zucchero che potesse alzare i livelli glicemici, determinanti per accelerare il decesso? 



Agenti di polizia penitenziaria e medici vengono indagati, e negano ogni responsabilità, naturalmente, senza spiegare con ragionevolezza il perché di quel corpo martoriato. Era un drogato, va bene. Ce ne sono tanti. Era certamente lasciato solo, o voleva star solo. I familiari sapevano, sono stati loro ad avvisare il magistrato che nell’appartamento in cui viveva talvolta c’era della droga. La procura va avanti, scattano le accuse di omicidio preterintenzionale e omicidio colposo per omissione di soccorso, c’è una commissione parlamentare che acclara la morte perlomeno per abbandono terapeutico. Senza contare il falso, l’abuso d’ufficio, lo stato d’incapace della vittima ad aggravare le accuse. 



Ma le sentenze, che tardano tropo ad arrivare, fanno male al cuore: dopo 4 anni la maggior parte degli imputati è assolta, altre pene sono sospese o derubricate secondo minor gravità. 

E così in appello. La Cassazione annulla l’appello, ordina un nuovo processo, e di nuovo la parola che dovrebbe chiudere il caso è assoluzione. Ma i familiari sbalorditi non cedono, la sorella soprattutto vuole la verità, e l’abbiamo vista chiederla, con dolore, con rabbia, servendosi di ogni mezzo messo a disposizione dai media. Si è detto odiosamente che cercava visibilità, che si apparecchiava una carriera. Ma la testimonianza di Ilaria Cucchi ha aperto una fogna inquietante di reati nascosti e violenze gratuite, di morti sospette per lesioni gravi in detenzione, di silenzi omertosi da parte di servitori dello stato, quali dovrebbero essere i rappresentanti delle forze dell’ordine e i medici. 

Su Stefano Cucchi è in corso l’inchiesta bis, ed è notizia di oggi (badate bene, sono passati sette anni sette dalla morte del giovane) che i periti nominati dal gip sentenziano: è morto per una crisi epilettica. Punto. Eppure le fratture alla colonna, la vescica che scoppiava? L’epilessia colpisce con calci e pugni? Valeva la pena riassumere seppure sommariamente la vicenda incredibile. Perché lo stato deve assicurare giustizia. Perché i pubblici ufficiali sono a servizio della gente. Perché la violenza è inammissibile, e se violenza non c’è stata, cosa apparentemente illogica, almeno c’è stata colpevole trascuratezza, indifferenza cinica. Ma soprattutto, le coperture scandalose di reati o perlomeno colpe gravi che qualcuno deve aver compiuto. 

Non si tratta di trovare capri espiatori. Non si tratta di vendetta. Si tratta di accertare la verità, e la verità, dopo troppo tempo, non è saltata fuori. Non c’è amore alla divisa che tenga, non c’è paura di perdere il posto che tenga. Le mafie vanno combattute dalle forze dell’ordine, tutte le mafie. E la magistratura, una ferita insanabile nel corpaccione tronfio e obeso della nostra povera giustizia, è lenta, omissiva, contradditoria, soggetta a pressioni che non fanno onore. 

A poco vale ricordare che quel ragazzo era malato. Che era lasciato in stato di abbandono. C’è chi ha accusato per questo la famiglia. Sappiamo che una persona sola al mondo vale l’interesse e la cura della giustizia e della sanità, tanto più se malata. La sua vita è sacra, va rispettata, tutelata, accolta, foss’anche il più grave delinquente al mondo. E così non era. Stefano Cucchi era soltanto un ragazzo. Sventurato. Disequlibrato, schiacciato dal buio di una giovinezza dissipata e devastata dalle dipendenze. Non sta a noi giudicare le responsabilità sue e altrui. A noi sta la compassione, la vicinanza senza se e senza ma ai suoi familiari, avessero anche al momento della morte scoperto la gravità della sua situazione. Provate voi ad avere un figlio tossicodipendente e malato, vediamo  se siete bravi a convincerlo, perché si faccia accompagnare, curare. Che paese è quello che usa la segregazione e la forza con i deboli. Che paese è quello che sopporta svagatamente la vista di quel cadavere, che è stato bene mostrare a tutti: è uno schiaffo alla nostra credibilità, alla fiducia che dovremmo avere nel rispettare le leggi, nel pagare le tasse, nel credere che chi guida è pagato per il bene di tutti e di ciascuno.