Cominciamo con le buone notizie. Il ragazzino ferito ieri da un compagno all’uscita da scuola dopo una lite a Spaccanapoli è fuori pericolo.
Proseguiamo con le notizie meno buone. Il feritore, a quanto sembra, ha quindici anni. E a me viene una domanda: che ci fa, un ragazzo di quindici anni, in terza media?
La so, la so la risposta: se non studia, non sa magari nemmeno leggere e scrivere, non è che lo possiamo promuovere per anzianità, la scuola è una cosa seria, se cominciamo a promuovere tutti poi nessuno fa niente, poi ci sono quelli che si iscrivono e non frequentano nemmeno, noi mandiamo a casa gli assistenti sociali, ma quelli non ne vogliono sapere, che possiamo farci… (non so, poi magari i professori di ‘sto povero ragazzo sono i migliori del mondo, chiedo scusa; però è quel che si sente dire in giro).
Mi viene in mente don Milani, che una volta che gli sono arrivati a Barbiana due alunni nuovi, che per lo Stato dovevano ripetere la prima media, lui per prima cosa li ha messi nelle classi della loro età, uno in seconda e uno in terza. E don Milani era uno che con lo studio non andava certo leggero, li faceva lavorare i suoi ragazzi. E quelli lì, sorpresi da un uomo che li valorizzava, si sono messi a lavorare come mai prima.
Troppo lontano, don Milani, un contesto troppo diverso? Bene, avviciniamoci. Tre giorni fa sono stato a cena nella scuola del mio amico Angelo, dirigente di un istituto comprensivo — elementari e medie — .della periferia milanese, melting pot di razze e nazionalità, con i pochi italiani che non brillano certo né per reddito né per background familiare (cioè una realtà credo non molto lontana da quella di via San Biagio dei Librai). Tra i commensali c’era il capo della banda degli ottoni del vicino circolo anarchico, che da un paio d’anni fanno scuola di musica, gratis, al pomeriggio per gli alunni della scuola. Racconta di un ragazzo egiziano, quindici anni, che ha cominciato a suonare un po’ per caso e ha deciso di tornare “perché qui mi chiamano per nome. Nessuno mi chiama per nome”. Ha cominciato a prenderci gusto, si avvicinano le vacanze di Natale, il capo della banda si dà da fare, recupera uno strumento da dargli perché si eserciti durante le vacanze, gli dà appuntamento a scuola. Mohammed arriva, vede lo strumento, non crede ai suoi occhi: “È la prima volta che qualcuno fa qualcosa per me”. C’è bisogno di dire che Mohammed non è stato più lui?
Troppo lontano, Milano da Napoli? Troppo idealistico quel che racconto? Non ci vorrebbe un impegno più sistematico, le istituzioni, lo Stato? C’è, eccome, l’impegno dello Stato, delle istituzioni. Nella scuola dei ragazzi della lite, in quelle vicine, ci sono un sacco di progetti di recupero, aiuto allo studio, educazione alla legalità, regolarmente finanziati con risorse pubbliche. “Tutto basato sulle regole, sulla pretesa di insegnare ai ragazzi a rispettare la legge senza coinvolgersi davvero con loro, senza incontrare le famiglie, senza andare al fondo del loro bisogno umano”, dice un insegnante della zona, che preferisco non nominare.
A poche centinaia di metri, invece, c’è il convento delle Suore di Carità dell’Assunzione. Ogni giorno accolgono un’ottantina di ragazzi (una goccia nell’oceano, ma si fa quel che si può). Orfani, figli di carcerati, figli di nessuno. Ragazzi difficili, come il quindicenne che ha tirato fuori il coltello. Ma nessuno ha mai detto di uno di loro “è un bullo”, come subito — così riportano i lanci di agenzia, se non è vero chiedo scusa — ha commentato qualcuno parlando del feritore. Per le suorine — come le chiamano tutti — ogni ragazzo è un nome e un cognome. Una storia. Un bisogno da accudire. Una famiglia da incontrare, da seguire. Organizzano aiuto allo studio, tornei di calcio, vacanze. Proprio ieri hanno fatto un’assemblea con i genitori. La mamma di una ragazzina di prima media dice: “è dalla prima elementare che mia figlia si rifiutava di andare a scuola, da quando viene da voi non ha perso un giorno di scuola! Non pensavo potesse accadere questo miracolo!” un’altra mamma ha detto: “questo luogo è casa per mio figlio, è casa per me!” Chissà che anche il “bullo” possa trovare una casa così…