Caro direttore,
se c’è una cosa che un po’ sto imparando in questi anni di ministero sacerdotale è il fatto che nessun uomo, per quanto scafato e “tutto d’un pezzo”, possa mai sottrarsi alla vita. Per questo tutte le volte che leggo notizie come quella delle dichiarazioni dell’arcivescovo emerito di Città del Capo, l’anglicano Desmond Tutu, che nel giorno del suo ottantacinquesimo compleanno “chiede per sé il diritto di decidere come e quando andarsene da questo mondo” invocando la possibilità dell’eutanasia, non mi sorprendo né mi turbo. Pensare di poter vivere la fede senza passare attraverso le molteplici situazioni contraddittorie del vivere, infatti, è molto ingenuo. Tutti prima o poi ci troviamo di fronte ad un’esperienza in cui siamo “messi alle strette”, inevitabilmente costretti a verificare se davvero la fede renda la vita più umana e compiuta o se, al contrario, essa non sia solo una mera impalcatura ideologica che ci sorregge fino all’arrivo della prima tempesta. 



Smettere di amare oppure peccare, non avere più voglia di vivere, indulgere in azioni poco dignitose, sprecare denaro, provare schifo di fronte ad un’infermità o bestemmiare sono solo alcune delle infinite variabili esistenziali con cui il nostro cuore può imbattersi nel fragile terreno della propria umanità. Pretendere che esse non ci mettano in discussione, o addirittura pensare come “cosa scandalosa” il fatto di sentircele addosso, è l’atteggiamento tipico che impedisce un vero lavoro su di sé, una strada. 



Mi permetto di dire che, in questi ultimi quattro anni trascorsi a riflettere sul dialogo e sulla capacità di testimonianza dei cristiani, quello che appare sempre più nitido è una sorta di “terrore” dei cristiani stessi, quale che ne sia “il partito religioso” di riferimento, ad entrare in contatto con qualcosa che possa disturbarli o inficiarne le convinzioni. L’incontro con l’altro spesso non è affatto percepito come una possibilità di bene e di lavoro, ma di pericolo. 

Per comprendere meglio quello che intendo vorrei riprendere le parole che Giuliano Pisapia — nel suo primo intervento giornalistico come collaboratore di Repubblica — ha usato proprio l’altro ieri sul tema dell’eutanasia. L’ex sindaco di Milano si è servito di espressioni molto affascinanti e “apparentemente dialoganti” per dire che lui a quel problema specifico una risposta ce l’ha già e consiste nel fare una legge in cui si conceda a tutti il diritto ad una decorosa “morte assistita”. Se le parole del vecchio arcivescovo Tutu aprono delle domande, la posizione di Pisapia chiude ogni dubbio con l’imponenza di una risposta già stabilita e inemendabile. 



A me tutto questo fa molto riflettere perché è come se simili posizioni laiciste — ma ce ne sono anche di speculari tra i credenti — chiudessero le porte allo spazio della libertà della persona che, dinnanzi all’urgenza della vita che incombe, è chiamata a vedere se ciò che ha ricevuto dai propri padri “regge”, è affidabile.  

Le posizioni ideologiche sono pertanto tutte quelle posizioni che non ci permettono di riguadagnarci quello che ci è stato trasmesso, ma che — per paura o per rabbia — bloccano qualunque tentativo di umano percorso. Io, a scanso di equivoci, resto fermamente contrario all’eutanasia, all’aborto e a tutte quelle pratiche di costume e di coscienza che la Chiesa riconosce come riduttive e lontane dalla Verità dell’Io, ma se posso dire questo ancora oggi con convinzione non è in virtù di un ragionamento consequenziale partito da un versetto biblico o da un pronunciamento magisteriale, bensì in forza di un paragone che le circostanze — a volte in modo molto drammatico — mi hanno costretto a fare tra quello che avevo davanti agli occhi e quello che, invece, ho ricevuto proprio attraverso i versetti biblici e i pronunciamenti del Magistero. 

Credo sia questo, pertanto, l’atteggiamento più corretto da tenere verso ogni storia che incrociamo: consentire a tutti il tempo di fare una strada, di verificare davvero la pertinenza delle parole ai fatti, senza rinunciare a “dire delle parole”, ma neppure senza censurare la forza dirompente dei fatti. Se sapremo usare, a noi stessi e agli altri, questa piccola carità constateremo che tutto diventerà più vero e più semplice, anche votare al referendum o scegliere di continuare a stare accanto al proprio marito nonostante i tradimenti o il dolore subito. Perché “dare tempo”, darci il tempo di fare una strada dentro le cose, è l’unico modo per poterci riappropriare delle verità per cui la vita sussiste e si muove, è — insomma — l’unico modo per cui quello che abbiamo vissuto, e per cui siamo grati, possa non solo avere un futuro, ma avere, soprattutto, una “carne” in questo nostro tormentato e affascinante presente.