Grande risalto sulla stampa per la recentissima sentenza della Consulta in merito all’attribuzione del cognome della mamma ai figli nati da una coppia regolarmente sposata, dal momento che la prassi fino ad oggi era quella della attribuzione automatica del cognome paterno. 

La ratio della decisione presa dalla Consulta è che così si rispetta il concetto di parità tra uomo e donna. Non c’è alcun dubbio sul valore e sulla condivisione di questo punto che la nostra Costituzione afferma all’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. 



Ma ci sono voluti oltre 70 anni perché la Corte costituzionale riconoscesse come un vulnus, sia a livello personale che sociale, il fatto che ai figli si attribuisse automaticamente il cognome paterno. Per decenni, o per secoli, questa prassi è servita a rafforzare i vincoli di appartenenza ad un determinato ceppo sociale, con tutti i relativi diritti e doveri che ne scaturiscono. Ora i tempi sono cambiati e le donne, tra le tante conquiste fatte in questi anni sul piano professionale oltre che sociale, sono sempre più alla ricerca di forme e di formule che definiscano la loro parità, sperando in questo modo di colmare ingiustizie ataviche. 



Non bastano però le formulazioni giuridiche, se ancora oggi esiste un gap che rende molto più complesso per le donne raggiungere, a parità di capacità e di competenze, quanto sarebbe loro strettamente dovuto. E questa legislatura aveva già cominciato ad affrontare anche questo aspetto, con il proposito che l’identità femminile guadagnasse sempre più gli spazi che le competono.

La possibilità che le coppie potessero attribuire ai propri figli un cognome diverso da quello paterno, o se lo preferivano entrambi i cognomi in un ordine da loro indicato, era stata oggetto di un’ampia discussione alla Camera dei deputati, conclusa il 24 settembre 2014 con l’approvazione della norma. Era allora presidente Enrico Letta e la legge venne trasmessa al senato per la sua approvazione definitiva, come accade attualmente e come non accadrà più dopo l’approvazione del referendum sulla riforma costituzionale



Concretamente, l’articolo 1 della legge recita: “I genitori coniugati, all’atto della dichiarazione di nascita del figlio, possono attribuirgli, secondo la loro volontà, il cognome del padre o quello della madre ovvero quelli di entrambi nell’ordine concordato. In caso di mancato accordo tra i genitori, al figlio sono attribuiti i cognomi di entrambi i genitori in ordine alfabetico”. La proposta di legge quindi c’è; il parlamento l’ha approvata ben due anni fa e ora siamo in attesa che il senato faccia quanto previsto dalla nostra Costituzione, allo stato attuale dei fatti.

Ancora una volta però la magistratura è intervenuta anticipando il parlamento e dichiarando incostituzionale l’automatica attribuzione del cognome paterno, prevista dall’attuale sistema normativo. La decisione è scattata dopo che la Corte d’appello di Genova aveva sollevato la questione di legittimità per il caso di un bambino nato nel 2012 con cittadinanza italiana e brasiliana. La coppia si era vista negare il diritto di mettere il doppio cognome al figlio.

Ma la legge approvata alla camera, attualmente parcheggiata in senato, si spinge anche oltre il tema della parità uomo-donna e investe il diritto dei figli con un articolo ad hoc, in cui riconosce al figlio maggiorenne il diritto di aggiungere al proprio cognome anche il cognome materno. La cosa vale anche per il figlio nato fuori dal matrimonio, nel caso che i genitori lo riconoscano successivamente.

In Europa, con piccole diversità, tale legge c’è già da tempo. In Inghilterra l’attribuzione del cognome ai figli non è regolata da specifiche disposizioni, ma è rimessa all’autonomia dei genitori, investiti della parental responsibility. Al momento della registrazione della nascita, al figlio può essere attribuito il cognome del padre, della madre oppure di entrambi i genitori. In Spagna la regola del “doppio cognome” vige da oltre 25 anni; per cui ogni individuo porta il primo cognome di entrambi i genitori, nell’ordine deciso con un accordo tra di loro. In caso di disaccordo, è attribuito al figlio il primo cognome del padre insieme al primo cognome della madre. Una volta maggiorenne, il figlio può chiedere di invertire l’ordine dei cognomi. In Germania la legge non distingue tra i figli nati nel matrimonio e i figli nati fuori del matrimonio. I coniugi possono mantenere il proprio cognome di nascita o decidere di adottare un cognome comune, che verrà assegnato anche ai figli.

Durante il dibattito in Parlamento che ha preceduto l’approvazione della legge, ci si è a lungo interrogati sul senso di una legge che in fatto di cognome ribadisce diritti paritari non solo alla donna, ma anche al figlio. E credo che una delle conclusioni emerse in quei giorni meriti di essere sottolineata anche oggi dopo la sentenza della Consulta. 

I diritti individuali sono il perno intorno a cui ruota l’assetto normativo di questo nostro tempo: diritto della donna a trasmettere il suo cognome, diritto di un figlio a decidere del suo cognome, diritto di un figlio nato fuori dal matrimonio a vedersi riconosciuto e a poter scegliere, anche lui in condizioni di parità, il cognome che desidera assumere. 

Il cuore del problema è se tutto ciò contribuirà a rafforzare i legami intrafamiliari, se renderà questa famiglia più unita e capace di interagire in modo solidale con i bisogni di tutti, o se invece ci troveremo davanti ad una soluzione che serve solo a ribadire nei diversi ruoli la logica della loro priorità, poter capire chi viene prima e chi viene dopo. 

Da sempre il cognome ha definito un’appartenenza, mentre il nome ha marcato la propria individualità; un punto di equilibrio tra il chi sono io e il chi siamo noi, nel giusto mix di identità e dialogo, di responsabilità e libertà. Vorremmo che la legge, più ancora che la sentenza, fosse un incentivo a rafforzare la coesione interna della famiglia, con il sufficiente livello di distinzione rispetto al contesto esterno. Famiglie aperte, ma non famiglie liquide; famiglie inclusive, ma non famiglie dispersive: a questo tendono i legami familiari, quando marcano un confine tra il dentro e il fuori.