“C’è però una ferita che fa male. Sono anche uno storico dell’arte che da anni si occupa dell’arte tra Umbria e Marche. Dopo le prime scosse di Amatrice e Arquata ci siamo subito accorti che la situazione per il patrimonio storico artistico era molto difficile, nella zona tra Fabriano e Ascoli Piceno erano centinaia le chiese inagibili, migliaia le opere d’arte in pericolo. Di fronte a tutto questo le soprintendenze erano in stallo totale, non per cattiva volontà dei funzionari sul territorio che invece sono sensibili e molto attivi, ma nella sostanza non si è fatto nulla”.

Sono le parole allarmate e amare del sindaco di Matelica Alessandro Delpriori, affidate ad una lettera inviata a Repubblica. Come lui stesso svela è storico dell’arte e questa sua preparazione gli ha permesso di capire che la chiesa francescana della bellissima cittadina marchigiana era a rischio dopo le scosse di agosto. Così si è dato da fare per proteggere gli archi della facciata con delle centinature ed è riuscito ad evitare le probabili, disastrose conseguenze della scossa di domenica scorsa. 

La lettera di Delpriori ovviamente pone molti interrogativi. Davvero non si poteva fare nulla per evitare questa catastrofe del patrimonio culturale e in particolare di quello religioso? Sono giorni in cui si sentono tante parole piene di retorica vedendo queste decine di chiese ridotte in macerie o rese inagibili chissà sin quando. Parole pronunciate un po’ per inerzia sentimentale e un po’ per fatalismo. Perché il sottinteso è sempre lo stesso: è evidentemente impossibile proteggere un patrimonio così diffuso e così ricco. Un sottinteso che il ministro Franceschini non è riuscito a tacere, rispondendo un po’ stizzito ai cronisti che gli chiedevano conto dei danni del terremoto. “La vastità dei danni comporta che si debbano seguire delle priorità. Sono migliaia le chiese colpite da sisma, penso che proprio su questo fare delle polemiche sia sbagliato”. Evidentemente c’è molto imbarazzo in questa sua dichiarazione: quell’enfatizzazione così approssimativa sui numeri (“migliaia di chiese”) è come darsi un alibi. Come dire: “Che potevamo farci?”. Impossibile presidiare un patrimonio così vasto. 

La cultura in questo paese è da tempo ridotta a pura retorica. Ma la retorica è nemica della cultura né più né meno del terremoto. Se ne parla sull’onda emotiva senza mai porsi una domanda elementare: si poteva prevenire? Si poteva evitare qualche danno? Ad esempio Tomaso Montanari, storico dell’arte, citando i casi di Sant’Eutizio di Piedivalle vicino a Preci e San Salvatore in Campi di Norcia ha sottolineato che “entrambe danneggiate ad agosto, potevano forse essere salvate se si fossero consolidate”. Sant’Eutizio e San Salvatore sono tra le due più gravi perdite causate dal terremoto, perché erano due straordinari gioielli. Il rosone di Sant’Eutizio in particolare era un raffinatissimo traforo nel marmo, ora in briciole e che sarà una vera impresa ricostruire. 

Ora si piangono queste bellezze perdute che in realtà non hanno mai goduto di molta ammirazione e attenzione. E nel fiume di retorica per pensare al futuro non resta che affidarsi al consueto guru: ed ecco il nome inossidabile di Renzo Piano che viene evocato per dare i criteri della ricostruzione. Ma il patrimonio non ha bisogno di pur autorevoli guru. Ha bisogno invece di competenze specifiche, di pazienza, di cura continua, di passione che accenda una dimensione di appartenenza. Ricostruire significa ricucire storie di comunità ferite. E per ricostruire c’è bisogno di esperti che conoscano in profondità i territori. È successo in tempi lontani a Venzone, in Friuli, ricostruita “com’era e dov’era” con un processo partecipativo che resta ancora un modello. La ricostruzione del patrimonio non è solo un restauro di pur bellissime pietre, ma è rimettere insieme un tessuto comunitario, culturale e sociale.