Le proteste studentesche di inizio d’anno oramai non fanno più notizia: appartengono a un rito che deve essere espletato, a una stanca liturgia che fa perdere qualche ora o giorno di scuola. Poi tutto finisce, senza che sia cresciuta alcuna consapevolezza.
A Roma però una novità c’è: nel liceo Azzarita, ai Parioli, sono stati gli stessi genitori degli studenti che avevano occupato a intervenire per riportare le cose alla loro normalità. Dopo un’assemblea con il preside e i docenti, i genitori hanno provveduto a prelevare i figli dal loro fortino e con le buone e con le cattive hanno messo fine alla loro protesta.
Fin qui la cronaca. Poi ci sono le considerazioni circa un fatto piuttosto inusuale. Chi scrive ha insegnato per trent’anni in scuole statali. Normalmente le relazioni con i genitori sono comprensive, solo raramente accade una difesa ad oltranza dei figli in difficoltà per la disciplina o per il rendimento scolastico; in genere ce la si cava stando un po’ sulle generali, in una conversazione di buon senso, senza entrare nei particolari dell’opera educativa che, con ruoli diversi, unisce docenti e genitori nella cura dei ragazzi.
In questo caso romano sembra essere accaduta una cosa un po’ diversa. I genitori non solo hanno sostenuto il corpo docente, ma si sono resi parte attiva nell’interrompere l’occupazione e nel restituire la scuola alle sue funzioni ordinarie di insegnamento e di apprendimento.
Un bel segnale, quali che siano le motivazioni.
L’ipotesi migliore è che a dettare l’azione dei genitori sia il pensiero che la scuola non è ricettacolo delle rivendicazioni degli studenti nei confronti del mondo che non va bene, a cominciare dall’alternanza scuola-lavoro che quest’anno è stata il pretesto per le manifestazioni più varie. La scuola è il luogo deputato all’istruzione ed è parte di un più vasto sistema per cui si sedimenta la coscienza di un popolo che tramanda lingua, conoscenze, storia da una generazione all’altra. Perciò non è un luogo in cui giocare. Troppo si permette il gioco delle autogestioni, delle cogestioni, degli scioperi, ossia di attività che quasi nulla hanno a che fare con lo scopo per cui la scuola esiste, e costa non poco all’intera società. Anche se fosse la peggiore (e quella italiana non lo è) forma di dialogo tra le generazioni e di consegna di una tradizione secolare affinché venga rivissuta e incrementata, la scuola segna il confine tra ignoranza — e dunque emarginazione — e minimo di competenze da poter spendere nella vita adulta.
Difendere quindi il diritto di fare delle aule un luogo di esercizio quotidiano dell’intelligenza e non un posto di bivacco e di discorsi fumosi tutti gli anni all’inizio della scuola sembra dunque non un atto di repressione, ma un rimettere le cose al loro posto.
Ci sono i centri sociali per altre occupazioni, più o meno lecite, più o meno salutari.
Se questi siano stati i motivi dell’intervento dei genitori di Roma di fronte all’occupazione organizzata peraltro non da tutti gli studenti, ma da circa un quinto di essi, la cronaca non lo dice. Ma sembra difficile pensare che tutti si siano mossi soltanto spinti da una istintiva avversione per qualsiasi forma di turbamento dell’ordine delle cose. Appare invece più plausibile una sorta di responsabilità per la vita di ragazzi ancora minorenni, una attiva presa d’atto del proprio compito, non delegabile a nessuno, neanche a preside e insegnanti. Se tutto ciò durasse anche oltre il giorno della sventata occupazione, fortunati quei ragazzi. Avrebbero davanti a loro e con loro uomini e donne con cui confrontarsi, da cui imparare.