Ha dell’incredibile la vicenda processuale relativa a Bruno Caccia, il magistrato ucciso dalla ‘ndrangheta il 26 giugno del 1983, per il cui omicidio sono stati condannati Domenico Belfiore e Rocco Schirripa. Bisogna andare un po’ indietro nel tempo per ricostruire la storia di questo giudice incorruttibile, uno di quelli con la “schiena dritta”, messosi in luce negli anni Settanta e Ottanta per la sua attività da procuratore nel periodo in cui il terrorismo di gruppi come le Brigate Rosse e Prima Linea faceva vittime e sequestri tra politici e magistrati. Ed è proprio in quegli anni che alcune famiglie della ‘ndrangheta calabrese e della mafia siciliana cominciano a trasferirsi al Nord Italia, e la consapevolezza di non poter trattare con Bruno Caccia lo fa diventare un nemico da eliminare. Il mandante dell’omicidio è Domenico Belfiore, uno dei nomi più visti delle ‘ndrine trasferitesi a Torino; tra gli esecutori, invece, c’è Rocco Schirripa, per il cui arresto bisognerà attendere il 2015, anno in cui il calabrese viene incastrato grazie all’ingegno della polizia che invia una lettera anonima con scritto il suo nome alle persone che crede informate sui fatti e dalle intercettazioni ottiene la conferma che davvero Schirripa è coinvolto nell’omicidio del magistrato. Tutto bene, fin qui. Fino a quando la Procura di Milano non si accorge che un vizio procedurale può spalancare le porte della prigione al killer di Bruno Caccia. La stessa Procura meneghina, infatti, 15 anni fa aveva archiviato la posizione di Schirripa e di altri indagati per assenza di prove. La mancata riapertura di un fascicolo di indagine, prassi da rispettare quando un’inchiesta viene archiviata, azzera di fatto tutto il materiale raccolto, le prove, le intercettazioni che avevano consegnato alla giustizia il killer di Bruno Caccia. Rischia di essere calpestata per un vizio procedurale la memoria di un magistrato dalla schiena dritta. E fa strano pensare che basti un errore di forma a rendere libero un uomo che tutti sanno essere colpevole. Bruno Caccia non ne sarebbe felice. (Dario D’Angelo)