Mia figlia aspetta il terzo. Il primo ha da poco compiuto tre anni, la seconda ne ha uno e mezzo. In giro la guardano già — mi racconta — come una mentecatta, o una povera derelitta che ha rinunciato alla vita, o come una nemica dell’umanità che con la sua incoscienza contribuisce alla distruzione dell’ambiente (sai i danni ecologici che faranno i tuoi figli…).
Ecco, a me pare che l’aspetto più triste del crollo demografico di cui ieri l’Istat ha dato l’ennesima conferma sia la mentalità che ci sta dietro. Perché, intendiamoci, ci sono molte ottime ragioni per non mettere al mondo dei figli. Davvero in tanti casi la situazione economica può essere precaria, quella familiare instabile, la salute a rischio, e così via, non mi sogno neanche di discutere. Però lo scenario complessivo è di ben altro segno. Parlando in termini generali, l’umanità nel suo insieme, e l’umanità occidentale in particolare, non è mai stata tanto ricca e in buona salute come oggi (Non ci credete? Provate a leggere Progress di Johan Norberg). Certo, oggi i giovani fanno fatica a trovare lavoro; ma i nostri nonni che per trovare lavoro partivano per l’America? Oggi un caso di morte per parto fa — giustamente — scandalo; ieri era un rischio quotidiano. Oggi chiunque può andare a scuola e puntare a salire nella scala sociale, molto più che in qualunque passato. E così via. Mi è capitato recentemente di ragionare di queste cose con i miei alunni di quarta superiore (diciott’anni). È stato un muro compatto di “no”: fare figli è un rischio, un costo, un problema. E soprattutto: chi si arrischia a mettere al mondo dei figli nella situazione attuale? E sono tutti ragazzi dalle condizioni economiche confortevoli, dalle prospettive di vita dignitose. Perché hanno una percezione così scura della realtà?
Una volta tanto, gioco anch’io a “di chi è la colpa”. La colpa è di una cultura, di una mentalità coltivata, di un sistema di informazione al servizio di questa cultura e mentalità, che sistematicamente diffondono l’idea che “tutto va male”. Nel rumore di fondo dell’informazione, i mezzi fanno a chi spara la notizia più tragica per farsi leggere un momento di più. Nel mondo della politica, tutti gridano allo sfascio per proporre se stessi come l’unica salvezza. Gli intellettuali seguono per lo più il calco del professor Emerson Eames di Manalive di Chesterton, quello che “tutti i pensatori sono pessimisti”. Così abbiamo tirato su una generazione di donne e uomini spaventati della vita, timorosi di ogni responsabilità, convinti che l’unico modo per essere contenti sia andare a ballare o in ferie alle Seychelles e che per questo i figli siano un impiccio (non è stata una famosa star italiana che si è vantata di aver abortito perché aveva già prenotato le vacanze?). E non pare essere questione di fondi e strutture: anche paesi che hanno storicamente politiche di sostegno alla natalità infinitamente più serie delle nostre — Francia, Germania, Olanda — hanno le culle sempre più vuote.
Non voglio essere ideologico, non sono un tifoso dell’incremento demografico a ogni costo, non mi convincono gli scenari apocalittici dipinti dai tifosi delle nascite: gli umani si sono sempre trovati di fronte a scenari imprevisti, hanno sempre trovato soluzioni inaspettate, lo faranno anche stavolta. Dio continuerà a prendersi cura di loro, che siano molti o che siano pochi. Quel che mi addolora, lo ripeto, è la tristezza, la mancanza di speranza che è la vera ragione del calo delle nascite, molto più — mi pare — di ogni fondato motivo materiale.
Mi par di sentire anche qui l’eco del grande Péguy: “Per sperare, bimba mia [tanto da mettere al mondo un figlio, aggiungo] bisogna avere avuto una grande gioia”. Ecco, di questo mi pare abbiamo bisogno per fare figli: una grande gioia. Tra poco è Natale.