I dati del rapporto Censis sui giovani non possono non far riflettere. Per quanto molti osservatori avessero intuito una verità che si percepisce già ad occhio nudo, la traduzione di questa nelle fredde statistiche colpisce il cuore. La situazione delle nuove generazioni è peggiore se confrontata non solo con quella dei loro genitori, ma anche dei loro nonni. Vagare ancora a trentacinque, quarant’anni con dei contratti a termine, o con stipendi estremamente modesti e non pagati da mesi, in quanto la cooperativa di cui si è parte non riceve più il previsto contributo dall’amministrazione pubblica. Avere al proprio fianco una donna che, quando può, riesce a svolgere delle lezioni private mentre la propria figlia entra in prima elementare, non costituisce affatto una situazione eccezionale, ma è un’immagine sufficientemente attendibile che rappresenta una parte crescente della popolazione giovanile del nostro paese. 



Non si è affatto dinanzi alla riedizione del “poveri ma belli” degli anni cinquanta. Ad una coppia come quella appena descritta, ed a tutte le decine di migliaia che le somigliano, manca completamente lo scenario di un’economia in ascesa che aveva accompagnato i loro nonni. Così come manca quella vicinanza di partiti di massa e di un’istituzione religiosa che, con la solidità delle rispettive reti relazionali, contribuivano ad alimentare la fiducia in un futuro possibile. 



Se i nostri padri sono stati momentaneamente poveri in un mondo animato da una volontà di crescita che li avrebbe tratti fuori dalle ristrettezze, i nostri figli sono stabilmente precari in un mondo debole, dove è già iniziato il ritorno verso la “decrescita felice”. La loro precarietà convive infatti con gli inviti a moderare lo sviluppo: inviti sacrosanti se non si declinassero anche in altrettanti ostacoli all’insediamento di un’azienda, all’apertura di un centro commerciale, al mancato avvio di un’opera pubblica dalla quale dipende la sopravvivenza delle decine di aziende dell’indotto e quindi dei potenziali posti di lavoro che quest’ultime avrebbero potuto offrire. 



Presi in trappola da una condizione scolastica, quella di laureati, che avrebbe dovuto aprir loro le porte delle aziende private e dei servizi pubblici, gli appartenenti a questa generazione non hanno nemmeno il conforto della competenza di un mestiere che non sono riusciti ad apprendere; perché se si studia pedagogia o architettura non si può, nel frattempo, diventare bravi meccanici, né bravi elettricisti. Tutte attività che si iniziano tra i sedici ed i diciotto anni, quando — per lo più oggi, al contrario di ieri — si sono collezionate le insufficienze scolastiche e le bocciature di rito. Pertanto, e paradossalmente, sono proprio quanti sono stati attratti dallo studio — cioè i cosiddetti “capaci e meritevoli” — a ritrovarsi in un canale occupazionale che sta girando a vuoto, da anni.

Solo le famiglie d’origine, quando ci sono e se ci sono ancora, sono in grado di tessere una rete di sicurezze che renda una simile vita sopportabile. Ma è una soluzione provvisoria. Lentamente, la forza dei nuclei famigliari di origine viene meno per il normale ciclo di vita. Nessuna famiglia può sopravvivere all’infinito per mantenere i propri figli: un tale scenario è pertanto destinato ad aggravarsi ed il conto alla rovescia, che ci piaccia o no, è già iniziato. Sono problemi noti, ma il dibattito che attualmente caratterizza lo scenario politico non sembra affatto tenere sufficientemente conto della loro portata e soprattutto della rapidità con la quale si stanno espandendo, soprattutto in quelle aree dove il flebile aumento occupazionale non si è nemmeno sentito. 

I dati del Censis gettano così una luce particolare sul risultato referendario. Questo infatti ha di fatto dato la possibilità, proprio alle fasce giovanili, di manifestare un forte segnale di dissenso e di protesta, la cui ampiezza è stata tale da determinare la caduta del governo. Il loro voto è stato quindi e in primo luogo un voto di protesta ed esprime più un dissenso a prescindere, che non un’analisi sulla nuova architettura costituzionale che il referendum proponeva e sulla quale si sono spaccati gli stessi costituzionalisti. 

Da ciò scaturisce una lezione che non possiamo non cogliere: non c’è nessun mutamento né riforma possibili, per quanto urgenti e inaggirabili, che possano ottenere un consenso referendario se non si accompagnano ad un progetto parallelo, altrettanto forte e visibile, di recupero di una vita accettabile per queste fasce sociali che stanno rapidamente diventando la maggioranza. Non c’è spazio per nessuna riforma istituzionale, nessun appello al “popolo sovrano”, nessun transito in politica per definire questioni di qualsiasi genere che non incappi oramai nella fiamma di una protesta destinata a crescere, e soprattutto ad esplodere sempre e comunque, non appena interpellata.

Ciò ha una conseguenza decisiva sul piano politico e va espressa qui con molta chiarezza: l’emergenza da affrontare è di una tale gravità da non poter essere lasciata ulteriormente attendere senza mettere profondamente a rischio la società nel suo insieme. Non è bene aspettare che le fiamme escano dalle finestre per decidersi a spegnere l’incendio: non ce lo chiede l’Europa, ce lo chiede l’Italia. 

Ora tutto questo richiede unità, quindi — detto esplicitamente — accordi trasversali. Che lo si scelga di fare dopo aver svolto delle libere elezioni è opportuno, ma sarà comunque questo il vero problema che il vincitore, chiunque esso sia, dovrà gestire il giorno dopo. Con gli avversari di oggi questi dovrà venire a patti domani, perché il progetto di recupero del nostro Paese non consente margini per protagonismi di ogni tipo. Tanto vale cominciare a pensarci fin d’ora.