La narrazione del nostro paese e del nostro tempo riparte da Zhang Yao, la ragazza cinese aggredita e morta tragicamente a Roma la scorsa settimana. L’episodio vede al centro i genitori della ragazza giunti nel nostro paese — dove la figlia studiava — con dubbi, domande e sconcerto. Non si capacitano di come la loro Zhang abbia potuto essere derubata in pieno giorno a Roma da stranieri nomadi, di come si possa essere messa a inseguire i ladri e di come sia stato possibile, infine, che un treno l’abbia travolta proprio durante l’inseguimento. Cercano verità, cercano giustizia, ma sono soli, stanchi, pieni di rabbia e di dolore. 



Le circostanze in cui Zhang è morta riportano alla nostra attenzione il “paese reale”, quello dove essere giovani e non essere italiani è difficile, se non impossibile. E riportano sotto i riflettori il degrado della Capitale, ostaggio di un effluvio di parole che non stanno — di fatto — risolvendo nulla, ma rischiano al contrario di alimentare conflitti e nuovi drammi sociali. Viviamo dentro una gigantesca bolla mediatica che, almeno da dieci anni, continua a spostare il dibattito pubblico sulle strutture, sulle leggi, sulle “riforme”, senza accorgersi che la crisi del nostro paese è anzitutto una crisi di umanità, una crisi di libertà, che si esprime con l’attesa messianica di un liberatore, di destra o di sinistra non importa, e con l’anelito incessante verso una nuova era in cui un esercito di “puri” possa guidare la nostra terra. Incapaci di stare dentro ai problemi cerchiamo, sempre e ostinatamente, una realtà al di fuori di noi che possa risolvere tutto illudendoci che al mondo esistano uomini senza peccato, che si possano organizzare sistemi così perfetti da potersi risparmiare la fatica di essere “buoni”. 



Zhang è il frutto di tutto questo, di una politica migratoria figlia di slogan e di scandali, incapace di governare il fenomeno e presentare al paese un vero piano di integrazione capace di distinguere tra immigrato e profugo, tra studente e clandestino. La cosa triste è che questa storia — proprio perché accaduta tra extracomunitari — non occupa il giusto spazio sui mezzi di informazione, sui giornali o sui siti di news, manifestando la xenofobia latente del Bel Paese e pensando che fatti come questo alla fine non forniscano una cartina tornasole dello stato di salute della nostra nazione. 



Invece la disperazione del padre di Zhang, le lacrime tormentate sul suo volto, ci dicono, prima di ogni questione politica o di potere, come la vera domanda che attende al varco gli italiani non sia tanto: “Quando andremo a votare?” bensì “Che cosa significa essere persone nel paese di Dante e di Michelangelo?”. Se lo chiedono i disoccupati, se lo chiedono gli studenti, se lo chiedono i nuovi poveri e se lo chiedono i giovani.

Il pianto di papà Yao è forse la cosa più italiana che abbiamo potuto vedere negli ultimi giorni mentre i riti di una stanca Repubblica infarcivano settant’anni di convivenza sociale e di impegno comune con le alchimie che sottraggono al popolo il tesoro più prezioso, ossia la gioia di vivere e di accogliere chiunque nella nostra meravigliosa e tormentata terra. E forse è proprio questa l’integrazione di cui siamo stati capaci: abbiamo lasciato il papà di Zhang solo con il suo dolore e le sue domande. Almeno in questo, è amaro doverlo dire, lo abbiamo davvero fatto diventare un “nuovo italiano”. 

 

@donfedepichetto