La mano del terrore questa volta si è abbattuta su Berlino. Un’ideologia perversa, che priva le persone del loro volto per ridurle a simboli, ha invaso uno dei mercatini di Natale più popolari della città, seminando morte e nuovo dolore.
Tra quelle bancarelle si consuma il desiderio e l’attesa di molti che, al di là delle tante riduzioni operate dal nostro tempo, riconoscono ancora nel Natale un momento di unità e di pace, di serenità e di bene. La furia di Erode si è rivolta ancora una volta contro la culla di Gesù Bambino e la strage degli Innocenti diventa di nuovo sinonimo di una violenza cieca e senza pietà, di un odio ostinato e convinto che mira a spazzare via tutto quello che siamo e che rappresentiamo. Quell’Europa che fatica tanto ad esistere come unione di Stati e di comunità è, paradossalmente, agli occhi dei terroristi ben compatta e senza frontiere, testimone inequivocabile di una cultura e di una civiltà da attaccare e da abbattere.
Anche questa volta il mondo si ferma, anche questa volta l’Occidente conta i suoi morti, ma — soprattutto — anche questa volta il Continente deve fare i conti con la propria incapacità di rispondere e di reagire a tutto questo. All’Unione Europea manca un’espressione sociale e civile perché manca il senso ultimo di un’appartenenza, di una coscienza di sé, di una vocazione. L’attentato di Berlino mette in luce la povertà di un’identità che non sa declinarsi se non su un binario economico nutrito di austerità o di un nazionalismo offerto come soluzione a buon mercato, atteggiamenti opposti ma complementari che si manifestano nel rifiuto completo della propria storia, nella condanna sessantottina di quello che siamo e di quello che abbiamo costruito con il nostro fragile tentativo di essere popolo, di essere società.
Una unione di nazioni sulla via del suicidio è dunque colpita al cuore per un passato che ha pervicacemente respinto e — proprio per questo — si ritrova senza una direzione e senza un futuro.
La guerra totale che tanti vorrebbero, al pari dell’inerzia letale sostenuta dagli altri, non fa i conti con quello che salvò lo stesso Gesù Bambino: una paternità capace di portarla su un’altra strada, in un altro paese. I morti di Berlino sono in realtà orfani, uomini privi di un Padre che non sanno, proprio per questo, essere più fratelli. Qualunque sia l’epilogo di questa ennesima tragica vicenda, qualunque sia il prossimo voto o la prossima contesa nazionale che prenderà presto il posto di questi giorni di lacrime, quello che è successo nel cuore politico del Continente nella settimana di Natale è un monito per tutti: finché non ritroviamo noi stessi, finché non ritorniamo a fare un’esperienza autentica e aperta della realtà e della vita, sapremo solo reagire, controbattere o — più meschinamente — chinare il capo e tacere.
Alla vigilia di questo 25 dicembre ciò di cui si sente sempre più il bisogno è di più un’educazione, una strada che ci consenta di riconquistare, trafficare e rielaborare l’eredità dei nostri Padri per poterla esprimere nel tempo presente con la forza di chi è grato per ciò che ha ricevuto e con la prospettiva di chi è certo del proprio Destino. Un orizzonte che non può essere lasciato nelle mani della morte ma che ha bisogno, ancora una volta, del semplice vagito della Vita, della disarmata bellezza di un Bambino che — con la Sua Presenza — è venuto nel mondo per cambiare il nostro cuore e farci il dono grande della Salvezza, di un’esistenza realmente umana che sa rispondere ad ogni odio con la tenerezza di un Bene, con la certezza di un Amore, con lo sguardo semplice e rivoluzionario di un Figlio. Per riscoprire il dono che ci è stato fatto, per ritrovare il gusto di tornare coraggiosamente a vivere insieme. Dentro tutto, anche dinanzi alla morte.