Dice che siamo al di là di ogni ragionevole dubbio. E che oltre ogni ragionevole dubbio Antonio Logli è colpevole di omicidio volontario e di distruzione del cadavere della moglie Roberta Ragusa, 44 anni, madre di due figli, scomparsa nella notte fra il 13 e il 14 gennaio del 2012 e mai più ritrovata, né viva né morta. 

Puntuale come “Chi l’ha visto” è arrivata ieri, mercoledì 21 dicembre, l’attesa sentenza del Tribunale di Pisa, pronunciata dal giudice Elsa Iadaresta. Attesa  dallo scorso 18 novembre, quando il Gup di Pisa, che era all’epoca la stessa Iadaresta, fissò il processo; anzi, per la precisione, attesa dal precedente 17 marzo, quando la Cassazione annullò la sentenza di proscioglimento di Logli che era stata pronunciata il 6 marzo 2015 dall’allora Gup del Tribunale di Pisa, Giuseppe Laghezza.

Dunque, quattro anni dopo la scomparsa della Ragusa il marito era innocente (“non ha commesso il fatto”), adesso è colpevole eccome (“lo ha commesso oltre ogni ragionevole dubbio”). Il bello è, a quanto se ne sa, che da allora non sono cambiati gli elementi di prova, o meglio gli indizi, perché trattasi di processo indiziario. 

Intanto sono rimasti tali gli elementi mancanti, cioè il cadavere e l’arma del delitto. Non ve n’è traccia. Testimonianza chiave è tuttora quella del giostraio Loris Gozi (finito poi in carcere per il furto di un computer, adesso è fuori) che raccontò — un anno dopo la scomparsa della Ragusa — di aver visto quella notte, mentre portava a passeggio i cani, un uomo e una donna (Logli e verosimilmente Ragusa) litigare violentemente in strada e poi l’uomo spingere in macchina la signora. La macchina era una Escort, absit injuria verbo, vecchiotta anziché no essendo uscita dal listino della Ford 14 anni prima. 

E il movente? Mettersi con l’amante senza perdere i benefici economici derivanti dalla moglie: casa, agenzia di scuola guida, eccetera. Eh sì, perché il Logli aveva un’amante, Sara Calzolaio. Ma non un’amante qualsivoglia: bensì una che la moglie ben conosceva essendo stata prima baby sitter in casa Logli e poi impiegata alla scuola guida Futura.

Per provare a farsi un’idea seria bisognerebbe leggere, come si dice, la carte processuali, ovvero, attendere, come si dice, le motivazioni della sentenza. Nel frattempo è impossibile non notare questo: gli elementi del gossip della gelosia e della riffa sulla colpevolezza del Logli, che da cinque anni appassionano gli amanti del giallo, in tutto questo tempo sono affiorati in tv, nelle trasmissioni dedicate al genere, più che altrove.

Il 22 novembre a “Vita in diretta”, su Rai1, si apprende che Roberta Ragusa non può che essere morta. La cugina Maria confida a Marco Liorni e Cristina Parodi che “dopo 5 anni giusto con il cuore si può pensare che sia ancora viva. Mia cugina chiaramente è stata fatta sparire”. Sulla rivista “Giallo” la nota criminologa Roberta Bruzzone è della stessa idea: “Come la mia lunga esperienza in casi di questo genere mi ha insegnato, solo la morte è in grado di cancellare ogni traccia di una donna con il profilo di Roberta”.

C’è un dato ufficiale del ministero degli Interni su cui riflettere: in Italia si sono perse le tracce di 34.562 persone. Avete letto bene. I conteggi vengono effettuati dal 1974. I quasi 35mila sono spariti in 30 anni, più di mille all’anno. Forse qualcuno non è morto, o no? Morto non era Paolo Gallo, nel 1954, quando ne fu denunciata la scomparsa; ma il fratello Salvatore fu condannato all’ergastolo per omicidio. Mancava il cadavere: aggravante di occultamento. Grazie a un’inchiesta giornalistica il morto risuscitò sette anni dopo; nel frattempo Salvatore, nei sette anni di carcere, s’era pure ammalato gravemente ed era finito su una sedia a rotelle.

A “Pomeriggio 5” è Cinzia, amica e vicina di casa di Roberta Ragusa, a sperare che “esca presto la verità su Roberta: non avrebbe mai abbandonato i suoi figli”.

Sempre a “La vita in diretta” un altro indizio (?): in un’intercettazione, raccolta dagli inquirenti qualche giorno dopo il fatto, Logli ritorna nel luogo incriminato con una persona ed esegue una prova di visibilità; gli chiede: “Guarda un po’, sono le 10, a luci spente, riesci a vedere?”. In un’altra puntata della stessa trasmissione si aspetta “chiarezza e verità” il giostraio testimone. “Voglio giustizia per la signora Roberta”, ribadisce Loris Gozi. “Portavo in giro i cani come ho sempre fatto ed ho visto questa donna e questo uomo (il marito Antonio Logli, ndr) che litigavano”. Riferisce poi di una signora che gli ha raccontato “determinate cose” sullo stesso evento. “Le ho detto che doveva andare a dirle in caserma non a me. Mi ha messo a disagio”, conclude. Ah beh.

Come ha anche ricordato un recente articolo di D’Auria sul Fatto Quotidiano (giornale che è difficile considerare anti-magistratura), secondo le regole fondamentali del codice di procedura penale l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi non siano gravi precisi e concordanti. Un indizio è grave quando è dotato di un grado di persuasività elevato e quindi riesce a resistere ad eventuali obiezioni; un indizio è preciso quando non è suscettibile di diverse interpretazioni; un indizio è concordante nel senso che vi devono essere necessariamente più indizi che confluiscono tutti nella stessa direzione.

Ora, “il ragionamento del giudice — scrive D’Auria, riferendosi a un altro caso di omicidio senza cadavere — non può essere di tipo ermeneutico-interpretativo. Il giudice non può scovare la verità interpretando il fatto. Il lavoro del giudice è, al contrario, di tipo epistemologico, cioè pari a quello dello scienziato empirista che deve attenersi agli elementi che ha a disposizione e valutare questi (senza interpretarli) in ragione delle norme di diritto sulle modalità di trattamento della prova. Per questo, in un’altra vicenda processuale, i giudici sono addivenuti ad una decisione opposta, nel senso di affermare che, in assenza del ritrovamento del cadavere, non è possibile condannare per omicidio. Perché, si ripete, il fatto ignoto (chi è l’assassino) su cui ‘appoggiare’ i fatti noti (gli indizi) è di per sé un fatto ignoto (in quanto non si sa se la persona scomparsa sia stata realmente uccisa). Il ragionamento giuridico non può by-passare la logica, come voluto dall’articolo 606 del codice di procedura penale”. 

Tutto questo non per addentrarci in una disquisizione giuridica o di procedura penale, ma per riflettere su osservazioni tipo quella fatta da Voltaire: “E” meglio rischiare di salvare un colpevole piuttosto che condannare un innocente”.

La giustizia può sbagliare, non è esattamente questo il problema. E magari nel nostro caso non ha neanche sbagliato, chi lo sa? Però guai a considerare la giustizia come la suprema infallibile e salvifica capacità dell’uomo di mettere a posto le cose. Un esempio? Da più di vent’anni in Italia si è atteso che la giustizia mettesse in ordine la politica, rigenerandola. Si è visto…

Disse Pirandello: “Se non riconosciamo che errare è dell’uomo, non è crudeltà sovrumana la giustizia?”

Fra gente che riconosce di errare è più facile intendersi e costruire qualcosa di buono.