Sì, il ministro Poletti ha avuto un’uscita che dire infelice è usare un eufemismo, quando ha detto che tra i giovani italiani che vanno all’estero “c’è gente che è meglio non avere tra i piedi”. Sì, il fatto che il figlio lavori per una cooperativa che ha ricevuto dallo Stato svariate centinaia di migliaia di euro di contributi non spinge ad avere buoni pensieri, anche se lui asserisce che le erogazioni risalgono a periodi in cui il padre non era ministro: sono arrivati comunque, no? E anche se, presumo, sono assolutamente legali e legittimi, come non capire il malumore di chi vede che ci sono attività che la politica — legalmente e legittimamente, per carità — favorisce, e altre che — per usare ancora un eufemismo — favorisce molto meno? Anch’io non ho letto volentieri le parole di Poletti senior, da un ministro della Repubblica si può pretendere almeno un minimo di stile. Anch’io non ho letto volentieri la notizia dei contributi all’azienda di Poletti junior, i criteri — legali, legittimi — con cui vengono erogati i contributi pubblici possono altrettanto legittimamente essere messi in discussione.
Ma un conto sono il malumore, la critica, la risposta anche piccata ma intelligente come quella di Francesco da Cambridge o quella di Lara dall’Olanda. Un altro sono l’invettiva, l’insulto, le minacce di morte, come quelle che Poletti junior ha ricevuto via web e per le quali si è rivolto ai carabinieri. L’Italia non è un Paese attrattivo per le giovani intelligenze, è vero. Ma, oltre alla difficoltà di valorizzare i talenti, c’è un altro motivo, forse anche più grave perché più diffuso, più radicato ormai nel sentire comune, per cui l’Italia non è un Paese attrattivo: ed è questo clima da caccia alle streghe, da insulto sistematico, da gogna mediatica con cui si affronta ogni vicenda.
Certo, l’Italia è — da sempre, si può dire — un Paese di rivalità: Firenze contro Siena, Genova contro Venezia, guelfi contro ghibellini, rossi contro neri, ogni contrada e ogni tempo ha avuto la sua rivalità e l’unificazione imposta con le armi non ha favorito lo sviluppo di un sentimento di appartenenza comune. Ma ciononostante è anche un Paese in cui, nei momenti difficili — dopo Caporetto, quando si è trattato di scrivere la Costituzione, negli anni Settanta — la tensione verso il bene comune ha prevalso sull’interesse di parte, nei ceti dirigenti e fra la gente: Togliatti e De Gasperi, don Camillo e Peppone.
È questo clima che stento a ritrovare, è questo che mi preoccupa: non solo sui social — che dell’invettiva sono il luogo privilegiato, dato che permettono di lanciare l’insulto ben protetti dietro uno schermo, senza bisogno di guardarsi in faccia — ma sul tram, al bar, al mercato, l’aria che tira mi sembra sempre più questo gioco al massacro. Colpevolmente alimentato da politici che hanno fatto dell’invettiva l’unica proposta di cui sono capaci: dagli all’untore, affossiamo l’avversario di turno, poco importa se il suo progetto non è poi molto lontano dal nostro, se ci sarebbero gli spazi per un accordo. L’altro è sempre il male.
Ma chi semina vento raccoglie tempesta. Poi per forza i ragazzi se ne vanno. E chi rimane si guarda sempre più in cagnesco.