Visti da vicino, è tutta un’altra cosa. A proposito di migranti si possono leggere articoli di giornale, vedere reportage televisivi, discutere e litigare con compagni di studio, colleghi di lavoro, vicini di casa. Ma quando capita di vivere un’esperienza, di toccare con mano, di vedere persone in carne e ossa, la percezione e il giudizio assumono una consistenza diversa. 



È accaduto a duecento giovani che hanno partecipato a un insolito incontro organizzato in occasione della Campagna Tende di Avsi (#RifugiatiMigranti. Al lavoro per cambiare passo) promossa da questa ong presente in 30 Stati con 100 progetti di cooperazione allo sviluppo e che quest’anno sostiene tre tipi di intervento: nei Paesi di origine dei flussi migratori, nelle “terre di mezzo” che rappresentano la tappa intermedia dei viaggi della speranza, e in Italia, capolinea (provvisorio o definitivo) per migliaia di persone che hanno lasciato la loro terra. 



Eccoli lì, in una gelida serata milanese, a gremire un salone dell’hub della Stazione Centrale gestito da Progetto Arca Onlus, per ascoltare la testimonianza di un eritreo dal nome impronunciabile — Tsegehans Weldeslassie, per gli amici Ziggy — che racconta la sua odissea di profugo. 

Dopo la laurea in matematica, Ziggy rifiuta di arruolarsi nell’esercito del suo Paese, governato con pugno di ferro dal presidente-dittatore Isaias Afewerki, e per sfuggire alla prigione che lo attende e cercare un futuro migliore comincia un viaggio epico e disperato verso l’Europa. Supera di nascosto il confine col Sudan, ai piedi le scarpe da ginnastica regalate dallo zio d’America, poi la traversata nel deserto verso la Libia affidandosi ai trafficanti di carne umana, sotto il sole che brucia la pelle e 45 gradi di temperatura. 



Il giorno del suo compleanno si imbarca a Tripoli su un barcone che si riempie d’acqua, con i profughi costretti a svuotare continuamente lo scafo per non finire in mare. Tre giorni di navigazione, l’arrivo a Lampedusa senza soldi e senza vestiti, ma vivo. Seguono altri viaggi, altre odissee: Roma, Milano, Calais, Londra, dove non riesce a rimanere. Oggi Ziggy, che in Italia ha ottenuto asilo politico, ha un buon lavoro in un albergo — “anche se i primi giorni tutti mi prendevano in giro per il mio italiano” — e collabora con il progetto Arca come mediatore linguistico-culturale all’hub di prima accoglienza vicino alla Stazione Centrale, dove aiuta i connazionali appena arrivati a muovere i primi passi nel nostro Paese.

“Restituisco solo un po’ di quello che ho ricevuto. Grazie Italia, grazie italiani”. Duecento giovani guardano e ascoltano, ammutoliti. Poi Alberto Sinigallia, presidente di Arca, li guida a visitare l’hub, frontiera e cerniera dell’accoglienza: i saloni dove i profughi mangiano e dormono, l’infermeria, lo spazio per i bambini tappezzato di disegni colorati che raccontano terre lasciate e terre raggiunte, mari attraversati e soli all’orizzonte, sogni infranti e sogni realizzati. I locali pullulano di migranti africani, tutti giovanissimi. 

Alcuni hanno aiutato ad allestire il salone dell’incontro: strette di mano, sorrisi, amicizie che nascono, tè caldo e vin brûlé offerto dagli organizzatori, ma il cuore si era già scaldato in questa atmosfera piena del desiderio di conoscere e conoscersi. La serata si conclude con un concerto del coro Jazz Gospel Alchemy nell’atrio principale della stazione, dove dal 2013 sono transitati 118mila profughi (32mila quest’anno), tra cui 23.500 minori, reduci dalla traversata del Mediterraneo e dallo sbarco in Sicilia.

Per alcuni, Milano è stata la tappa intermedia di un viaggio verso la Germania o l’Europa del Nord, per molti altri — dopo la chiusura delle frontiere — la città dove iniziare un percorso di integrazione. Una città dove opera una società civile vitale e generosa, dove pullulano iniziative caritative e solidali, con centinaia di volontari ogni giorno all’opera, come è accaduto di vedere l’altra sera tra gli operatori di Arca. 

Una goccia nel mare del bisogno, certo, ma comunque un fatto, un’esperienza di uomini e donne all’opera che aiutano a fare ripartire l’esistenza e sfidano l’indifferenza e la rassegnazione. Una testimonianza umile e insieme solida che l’altro è un bene.

Questa “tenda in presa diretta” si rivela un incontro nel senso più autentico del termine: la possibilità di guardare in faccia i protagonisti di vicende che molti avevano soltanto letto sui giornali o visto in televisione, di immedesimarsi nella loro condizione, nelle attese che li muovono, nelle speranze che coltivano, nel desiderio di felicità che portano in cuore. 

La possibilità di capire la verità delle parole di Papa Francesco: “Non bisogna mai dimenticare che i migranti, prima di essere numeri, sono persone, sono volti, nomi, storie”. Visti da vicino, è tutta un’altra cosa.