Caro direttore,
ho letto la lettera di Andrea Perrone e Michele Rosboch sul dibattito aperto da quanto Julián Carrón ha scritto su Il Corriere della Sera. Gli autori intendono fissare alcune brevi osservazioni, alcuni punti fermi si potrebbe dire.

Ci sono però almeno due cose che personalmente non mi convincono nel loro ragionamento.



La prima. Nel giudicare scorretto ricondurre la problematica al “desiderio profondo” e alla “insoddisfazione acuta” che caratterizzano la condizione umana, gli autori rivendicano un più modesto ruolo dell’ordinamento giuridico, che sarebbe quello di “regolare il vivere comune degli uomini secondo norme che nascono da un’opzione profonda sul criterio del bene e sono capaci di determinare una mentalità“; ancora: “Il diritto […] esprimendo un criterio di bene e dando forma a una mentalità, contribuisce a un rapporto tra gli uomini più o meno capace di favorire il desiderio umano“. 



Gli autori danno per scontato che oggi questa “opzione profonda sul criterio del bene” sia ancora un’evidenza alla portata di tutti.

Circa un mese fa, Salah Abdeslam, uno degli autori della strage di Parigi dello scorso novembre —ancora a piede libero a quanto mi risulta — secondo indiscrezioni di stampa avrebbe contattato un avvocato belga. Il legale avrebbe offerto la propria disponibilità a difendere l’attentatore di Parigi. Le sue parole — così come riferite dalla stampa — sono sconcertanti: “Se domani mi sollecitasse, accetterei di essere il suo avvocato per lottare contro l’arbitrarietà e l’abuso di potere”. Certamente anche un terrorista ha diritto a difendersi, ma ciò non ci esime dalla domanda: è giusto tutto questo? E’ solo un esempio per ricordare che il nesso del diritto con parole come “giusto”, “bene”, “vero” non è più così evidente oggi, come anche solo trent’anni fa.



La seconda. Gli autori lamentano una frequente contrapposizione tra testimonianza privata e pubblica, che alla fine porterebbe a “ridurre il ruolo della religione a un comportamento privato“.

Nella lettera al Corriere della Sera, don Carrón cita un fatto capitato a degli amici che, intuendone il grido di compimento che lo caratterizzava, hanno semplicemente accolto un omosessuale; il quale, nel rapporto con queste persone conosciute per caso, ha cominciato a riscoprire se stesso. Perché questo fatto nella sua semplicità non potrebbe avere un valore pubblico molto più potente di qualsiasi piazza? Perché dovrebbe trattarsi solo di una “testimonianza personale”?

Mi pare che, in fondo, anche gli autori della lettera non sfuggano a quello che il Papa definisce caduta neopelagiana: “una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo a un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare”.