Dopo 29 anni, il caso dell’omicidio di Lidia Macchi è tornato alla ribalta in seguito all’arresto dell’allora ex compagno di liceo della vittima, Alberto Binda, avvenuto nelle ultime settimane. Ad incastrarlo sarebbe stata una lettera contenente una poesia e giunta a casa dei genitori di Lidia Macchi il giorno successivo ai funerali della giovane. Nel frattempo, il settimanale “Giallo”, nell’ultimo numero ha reso noti in esclusiva alcuni passaggi della perizia compiuta sulla lettera da parte della psicoterapeuta Vera Slepoj. Ciò che è emerso è un quadro dettagliato del presunto assassino il quale appare un giovane attratto dalla vittima ma allo stesso tempo turbato e crudele. Secondo la perizia della psicoterapeuta emerge l’identikit di un uomo religioso, oggetto di un rifiuto ma che dimostra di essere stato coinvolto nella vicenda, rendendolo noto pur in modo inconsapevole. “La poesia è un atto liberatorio”, ha aggiunto la Slepoj, “E’ una sorta di tentativo di coprire i rimorsi e un bisogno simbolico di sepoltura per rimuovere le proprie responsabilità”.



Il caso di Lidia Macchi è purtroppo da sempre costellato di stranezze e complicazioni che hanno impedito per 29 anni di trovare il vero colpevole. Anche ora, dopo l’arresto di Stefano Binda per accusa di omicidio volontario, i tratti non sono per nulla chiari e la prova decisiva ancora manca. Ci sono però stranezze continue anche nei comportamenti tenuti da Binda in questi anni, come ad esempio il problema del diario: nelle pagine delle agende di quell’anno maledetto, conservate tutte, lui scriveva giorno dopo giorno e sono state strappate le pagine dal 4 all’8 gennaio 1987, con Lidia che morì il 5. Perché tenerli gelosamente, mettendo anche lo scotch per non far vedere lo strappo di quelle pagine mancanti? Se fosse colpevole forse avrebbe avuto senso disfarsene in questi anni, sono prove compromettenti, per le quali tra l’altro ora è in carcere dopo la perizia calligrafica; se fosse innocente però, avere avuto ancora poco senso rimanere con quelle prove che avrebbero potuto metterlo in difficoltà se davvero lui non c’entrasse nulla. Dovunque la si guardi, la situazione di Binda è strana e gli inquirenti stanno cercano di capire dove stia la verità di lui e dell’intera vicenda legata a quella ragazza così barbaramente uccisa nella provincia di Varese, 29 anni fa.

Nuovi possibili piste per l’omicidio di Lidia Macchi, la ragazza uccisa nell’87 con 29 coltellate. Alcune settimane fa è stato arrestato il suo presunto assassino, Stefano Binda, un disoccupato di 49 anni, all’epoca del delitto legato a Comunione e Liberazione. Ma a gettare nuova luce sul caso, in questi ultimi giorni, potrebbe essere don Giuseppe Sotgiu, lo stesso prete di cui la madre di Lidia Macchi aveva parlato agli inquirenti. Stefano Binda era appena stato arrestato e la donna aveva riferito agli investigatori di chiedere spiegazioni anche a don Sotgiu perché erano molto amici. “Binda venne insieme con don Giuseppe, quella sera sembrava disperato”, aveva riportato Il Corriere della Sera. Il pg Carmen Manfredda nei prossimi giorni ascolterà di nuovo Patrizia B., la donna che ha riconosciuto la calligrafia della lettera anonima inviata ai genitori di Lidia Macchi e che ha portato le indagini verso l’arresto di Stefano Binda. Potrebbe essere ascoltato, riporta sempre il Corriere della sera, anche don Giuseppe, amico intimo del Binda dall’87 e oggi sacerdote. Un tempo il religioso era anche legato a Patrizia B. e nell’87, dopo l’omicidio, venne sottoposto anche alla prova del DNA. A Cronaca qui, in un’intervista esclusiva, don Giuseppe aveva riferito di escludere totalmente il coinvolgimento di Binda nel delitto. “Non credo assolutamente a tutta questa storia, neanche un po’. Conosco Stefano da quando avevo dieci anni. Hanno detto di tutto e di più su questo ragazzo, e adesso stanno inventando un mostro. La sua vita, forse, non è delle più lineari, ma questo non lo fa diventare un omicida”. Intanto La Repubblica comunica che Binda è stato trasferito al carcere di San Vittore. E’ emerso infatti che l’istituto milanese avrebbe maggiori possibilità, anche per l’assistenza ed il supporto medico. L’avvocato Sergio Martelli, difensore dell’indagato, ha subito contestato la decisione, dicendo di non conoscerne i reali motivi. “Costituisce un danno per la nostra difesa. Il signor Binda non mi ha mai raccontato di stare male in carcere, a Varese abbiamo sempre trovato persone dalla massima sensibilità e competenza”. 

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