Dalori, villaggio a 12 Km da Maiduguri in Nigeria, diventa ufficialmente una delle stelle nere che compongono la costellazione degli assalti dei terroristi fondamentalisti alla Vita, a ciascuno di noi. In ogni regione infatti c’è un commando, c’è un motivo politico, c’è una declinazione sociale ben precisa per compiere una strage. Questa volta sono di nuovo i bambini a essere stati protagonisti dell’assalto: bruciati vivi. E chi c’era ricorda solo un particolare terribile, osceno: le loro grida. In Cina i bambini vengono usati per determinare l’espansione della popolazione, per lavorare o per essere sottoposti a durissimi percorsi di allenamento che li portino a diventare, molto spesso a costo della vita, campionissimi nello sport. In America Latina, poi, i bambini sono il mezzo per le guerre fra bande e per il commercio della droga. Sempre in Africa sono anche “impiegati” per combattere le guerre imposte dai trafficanti d’armi e dai loro interessi. In Occidente, infine, i bimbi sono lo strumento per realizzare desideri di paternità o di maternità impossibili e, entrando nella camera degli orrori, non sono rari gli adulti progrediti e civilizzati ad usarli per esaudire i loro perversi desideri sessuali. Chi è dunque il bambino? Perché è sempre lui ad essere la vittima della scelleratezza umana?



Sempre più spesso ci si accorge infatti che il bambino diventa, nelle mani dell’adulto, una “vita a disposizione”, un “materiale biologico” al servizio dell’ideologia, del capriccio, del profitto. Non c’è rispetto per il bambino, non c’è stima per la sua voce e per i suoi diritti. E questo, si capisce bene, non è un dato culturale ascrivibile all’occidente opulento e tronfio, ma un fenomeno transculturale, un elemento trasversale che fa comprendere meglio quello che la Chiesa chiama “peccato originale”. Il peccato originale, infatti, sta nell’incapacità dell’uomo di stare dentro i propri confini, di permanere dentro l’oggettività della realtà, di rispettare “il dato”. Il bambino è un dato, è il dato per eccellenza della vita, e l’incapacità di accoglierlo, di custodirlo, di non asservirlo alle proprie logiche e ai propri interessi, racconta la crudeltà di un essere umano intriso di male al punto che possiamo dire — senza tema di smentita — che uno può uscire da questa concezione dell’esistenza, e quindi del bambino, non in forza di un progresso intellettuale o sociale, e neppure in forza di una legge o di una cultura, ma solo per uno sguardo — per un Incontro — che restituisca valore e dignità alla vita, al proprio dato, alla propria umanità.



Dietro questo svilimento del bambino e del dato a “materia biologica” a disposizione della volontà c’è dunque, in ultima istanza, un atteggiamento di disprezzo verso se stessi, verso il bambino che è in noi, verso quell’umano che è il nostro dato e che ci risulta sempre più spesso come insopportabile, come elemento da schiacciare e da sopprimere. 

Noi odiamo tanto, e abusiamo tanto degli altri — specie dell’esistenza più indifesa — perché ci odiamo tanto e abusiamo tanto del grido indifeso che abita noi stessi. Questo rispetto di sé non lo può insegnare l’Onu, neanche l’Unicef, e nemmeno la saggezza di un ritrovato Stato Etico. Questa compassione amorevole verso sé, e quindi verso ciò che di sé è più inerme, la si impara solo in un rapporto. Pare assurdo doverlo dire, ma dinnanzi al male che si perpetra in questi giorni, dinnanzi alle carni martoriate e fumiganti di quei bambini — dei nostri figli, di ciascuno di noi — l’unica via, l’unica strada, è davvero il cristianesimo. 



Perché il male non si estingue, ma si vince con l’amore, col sacrificio di Uno che ridà dignità al vivere. Infatti, se anche riuscissimo a fermare questo male, ce ne sarebbe pronto sempre un altro e la nostra vita si risolverebbe in un’eterna lotta contro il male del mondo, in un’eterna reazione per la quale noi saremmo sempre i buoni e gli altri sempre i cattivi. Dimenticando che il male è dentro di noi, nella nostra natura, dimenticando che Dio non chiede di estirpare la zizzania, ma di far crescere il grano, dimenticando infine che c’è Qualcuno che questa lotta l’ha già vinta e solo partecipando della Sua vittoria sarà possibile tornare alla nostra vita pieni di carità.

La Nigeria e il massacro di Boko Haram non sono altro che l’ennesimo segno del bisogno che abbiamo, per cambiare il mondo, di un avvenimento al di là delle nostre mani, al di là della nostra forza. Il bisogno di un atto di misericordia che venga a salvare, e a prendere su di sé, il peccato del mondo.