Il dibattito sulla famiglia, approdato ultimamente, nelle vesti del Festival di Sanremo, alla prima serata tv, rientra in un processo cinquantennale di modifica della sostanza della società, preannunciata da Pier Paolo Pasolini negli anni ’60. Abbiamo visto un mondo basato su cardini sociali divenire fondato sull’individualità; l’ideologia patriottico-sociale è stata sostituita dall’ideologia autonomista, che ha i suoi princìpi e i suoi prìncipi. Quello cui assistiamo oggi è una semplice conseguenza di un cammino iniziato, pubblicizzato, amministrato negli ultimi cinquant’anni; in cui da un lato qualcuno si crede molto all’avanguardia facendo la réclame dei “nuovi diritti”, come se fosse una trasgressione mentre non è altro che l’accondiscendenza al modo di pensare totalizzante di moda. Dall’altro c’è chi vede solo l’ennesima propaggine di questa valanga e solo contro questa si scaglia (ok, ma magari qualcuno si domandasse anche: “chi ha lasciato aperta la porta?”). 



Che quella del culto dell’autonomia (da cui derivano i cosiddetti diritti individuali acclamati sui massmedia) sia un’ideologia strutturata e disciplinata, lo vediamo ad ogni piè sospinto: ormai non si vedono più manifestazioni per i diritti dei lavoratori, si vedono nastrini tutti multicolori e tutti uguali ma non si sentono più canzoni che parlano di problemi sociali (come se non fossimo in piena crisi economica); siamo stretti alle corde da un sapiente battage che ci porta a pensare che i diritti siano solo quelli di vivere come vogliamo… ma nella nostra solitudine o nella nostra stanzetta. Le aggregazioni sociali sono sparite, i giovani sono esortati a pensare agli smartphone e ai social di qualsivoglia nome, e le pubblicità televisive o in rete propongono quasi solo modelli isolazionistici, come la pubblicità che invita il suicida a… buttarsi senza cadere sulla macchina nuova.



Il culto isolazionistico dell’autonomia, fonte dei cosiddetti diritti individuali, ha anche delle ricadute sociali e sanitarie: la mancanza di contatto e di colloquio fisico sono in diminuzione, dato che la vita non è più fatta di contatti ma di messaggi; e questo apre la porta a patologie, basti pensare all’incremento delle allergie o dei disturbi dell’attenzione. Non veder più fratelli e figli nascere porta ad un impoverimento delle conoscenze sul proprio corpo e sulla maternità. Rimandare di oltre dieci anni l’età feconda porta aumento di sterilità e di patologie legate alla prematurità. Per cui alla fine una società basata solo sui diritti dell’individuo e non anche sui diritti sociali (sulla socialità, sul contatto, sulla non paura dell’altro) finisce col diventare vecchia e malandata. Tutto il resto è conseguenza, e viene da lontano, e finisce col fare il gioco di quel potere che teme un popolo coeso, magari con meno cellulari ma con più “Solidarnosc” nella coscienza.



Chiamiamo allora le cose col loro nome, perché quello che viene strombazzato come diritto rivoluzionario spesso è solo seguire la corrente. “Generazione sfortunata – scriveva Pasolini – arriverai alla mezza età e alla vecchiaia e ti accorgerai di aver servito il mondo contro cui con zelo portasti avanti la lotta” e “ti accorgerai di aver disobbedito obbedendo”. 

Di fronte alla moda montante sugli schermi televisivi, facciamo memoria delle vere manifestazioni di anticonformismo per evitare che recitando gli slogan di moda qualcuno si senta “rivoluzionario”, perché chi segue la moda (e oggi la moda è il diritto personale) non fa rivoluzione, ma fa trend. Rivoluzionari erano gli atleti delle Black panthers alle olimpiadi del 1968 che alla premiazione sul podio salutarono col guanto nero e il pugno e per questo gli fu ritirata la medaglia vinta sul campo. Non è rivoluzionario chi viene applaudito e premiato sui palchi televisivi.