Ad aspettarlo erano lì da ore. I visi cotti dal sole, la lana colorata addosso, la meraviglia del cielo talmente lindo da sembrare spazzato con furia, e i colori violenti del Chiapas. Francesco vola nel sud del Messico, nella terra resa mitica dall’esercito zapatista di liberazione e dal subcomandante Marcos. La regione dalle 12 popolazioni indigene dove si parla lo tseltal, il ch’ol e lo tsotsil, dove l’esistenza è amara e i sogni sono difficili. Una terra di lacrime, aspra e matura. È nel cuore della diversità etnica e multiculturale del paese, il Papa, con una popolazione indigena che supera il milione e le 350mila persone, rappresentando quasi il 28% degli abitanti. E la regione più povera del Messico, e la miseria, i 100mila che attendono seri Francesco nel fazzoletto di campo municipale, la portano addosso. Sono indios, bassi da sembrare bambini, capelli neri come la pece. Incroci i loro sguardi e precipiti in una profondità senza fine.
La prima tappa è San Cristobal de las Casas,, dove se ti giri intorno ti aspetti di veder spuntare un conquistadores spagnolo, dagli angoli coloniali e il fresco delle chiese barocche. Incontro invece un gesuita che sembra balzato fuori direttamente da Mission, pizzetto coperta di lana e cinta multicolore ai fianchi. Padre Josè Apiles mi spiega che il 75% della gente che contemplo vive in stato di povertà e il 35% di questi in estrema povertà. È umanità abituata a sbattere il muso contro l’ingiustizia. E a essere calpestata. Eppure sono lì che urlano la loro gioia: è arrivato il Papa della pace, il Papa della misericordia, il Papa della giustizia. E poi la parola che non ti aspetti: il Papa della lucha, la lotta.
Gridano compatti, abituati ad alzare la voce. Gridano in lingue diverse, la sofferenza dei vinti e il dolore della propria storia. Viva il Papa che vuole i vescovi accanto ai poveri, viva il Papa che sa leggere i desideri e i sogni dei piccoli. Tatik Francisco, il pontefice latino-americano, ha indossato un mitra coloratissima, dove la croce maya, si fonde con cielo, terra e stelle. Di fronte la grande distesa umana il diacono legge il Vangelo in lingua tseltal e tsotsil. lI smanthal kajvaltike toj lek. La legge del Signore è perfetta, esordisce Francesco in uno degli idiomi indios, rinfranca l’anima. Dio è il Padre che soffre per il dolore, il maltrattamento e l’ingiustizia dei suoi figli. Tatik, il padre, parla in una omelia che sembra un grido ininterrotto. Celebra per loro, per i figli più piccoli e raccoglie l’anelito di libertà che attraversa la folla e l’intero Chiapas.
“L’alba sopraggiunse sopra tutte le tribù riunite”, recita citando un testo indio, il Popol Vuh, “La faccia della terra fu subito risanata dal sole.” Quell’anelito di libertà ha il sapore della terra promessa, è il desiderio di un luogo e di un tempo in cui il disprezzo sia superato dalla fraternità, l’ingiustizia sia vinta dalla solidarietà e la violenza sia cancellata dalla pace. È il desiderio di giustizia che fa tremare le colline arse dal caldo, spoglie di verde, il desiderio radicato nel cuore di tutti. Un desiderio che solo Tatik, il Padre ascolta.
Ed ecco che Bergoglio si trasforma in un comandante senza armi: in molti modi, denuncia, si è voluto far tacere l’anelito del cuore, in molti hanno cercato di anestetizzare le anime, di insinuare che i sogni sono impossibili. Persino il creato ha alzato la voce. Nel cuore del Messico, riprende i temi della sua ultima enciclica, la Laudato Sii e li rende plastici, scagliandosi contro l’uso irresponsabile delle risorse. Il suo è un grido che viene dal ventre del Chiapas , dove tra i poveri, gli abbandonati, i maltrattati c’è anche la terra. Anche lei incompresa, esclusa, predata come i popoli indigeni, portatori di una cultura, che non è inferiore a nessuno per valori e tradizione.
Francesco alza i toni, enfatizza le pause, parla direttamente alla pancia di chi ha di fronte, esprimendo dolore per il modo in cui la terra e l’umanità indigena sono state spogliate e depredate dagli uomini di potere. Una lunga e drammatica storia di soprusi per cui Francesco chiede perdono. Perdono hermanos, perdono fratelli. Il comandante Francisco non getta in faccia al mondo le sue accuse, ma guarda nello spazio della sua coscienza. Chiede perdono e insegue una logica fondata sull’amore. Come quella rappresentata dal Cristo de Copoya, la croce gloriosa piantata nella collina dove brilla la luna, che lui ha ammirato a bordo dell’elicottero che lo portava a SanCristobal. L’unica che può far rifiorire la terra del Chiapas.