Morelia batte tutti. È la capitale dello stato del Michoacan ad aver vinto in calore ed effetti speciali. L’accoglienza per Francesco nella regione centrale del Messico è stata strabordante. Un solo dato, quando siamo saliti a bordo del Boeing 737 dell’Aeromexico per fare ritorno alla base, Città del Messico, abbiamo scoperto che il settore riservato ai giornalisti era in gran parte occupato dai doni ricevuti dal Papa durante la giornata. Non era mai successo di vedere sedili coperti da cesti di frutta e velli di lana, quadri e volumi, pacchi contenenti tutte le varietà, e credete sono tante, di dolci messicani e souvenir di ogni genere. La cosa più impressionante, e sicuramente confortante, è che persino un meraviglioso crocifisso di legno nero viaggiava con noi, disteso in una delle cappelliere. Gesù insomma ci ha tenuto compagnia.



Ma che dire poi del Segretario di Stato, il timidissimo cardinal Parolin, abbracciato dai pupazzi, con faccioni enormi, spugnosi come teletubbies, nella cattedrale barocca di Morelia? E della bibbia di gomma offerta a Francesco dai bambini del catechismo? Del resto che la giornata prometteva bene lo abbiamo capito dal mattino, quando al ritmo di Cielito lindo, vero e proprio tormentone della visita nel Michoacan, siamo stati catapultati nel primo stadio della giornata, dove 20mila sacerdoti, religiosi e religiose, seminaristi e un bel po’ di laici infiltrati, ballavano scatenati in attesa di Francesco. Molti indossavano le maschere tradizionali, coloratissime e immaginifiche, che hanno reso celebre la cultura Puréchepa.



Mi sono imbattuta in un giovanissimo seminarista, che guarda caso si chiama Juan Pablo, un nome un destino, con addosso il Cinelo, un costume di straordinaria complessità che ricopre tutto il corpo, compreso il volto. Riusciva a saltare e muoversi nonostante, sospetto, avesse una ventina di chili in più da sostenere. Mi ha spiegato che era il modo con cui gli indios irridevano la spocchia e la vanità volgare dei conquistadores spagnoli, esasperando gli orpelli e i belletti con cui andavano in giro nelle Indie. Nel campo sportivo “Venustiano Corranza” però le maschere erano solo il segno di una gioia sfrenata, che faceva ondeggiare sai e tonache. Una folla capace anche di improvvisi momenti di silenzio, quando lo speaker in attesa di Francesco ha chiesto di ricordare i 43 studenti sequestrati nel settembre del 2014 a Iguala, nel Guerrero.



Perché questo è il punto, il benvenuto più affollato il Papa lo ha ricevuto nella regione che più di altre vive il dramma del narcotraffico: Nel Michoacan, gruppi armati si disputano il potere sul territorio a colpi di sangue e fuoco. Qui il presidente Pena Nieto è stato costretto a inviare uno dei suoi uomini di fiducia, Alfredo Castillo, con pieni poteri, per tentare di arrestare l’escalation di violenza e la crescita di una pericolosa “metastasi” nel cuore del Paese. I risultati sono stati parziali, e non va certo meglio alla Chiesa, che deve contrastare il sorgere di cartelli, come Los Caballeros Templaros, che seminano morte e terrore, saccheggiando il patrimonio simbolico e devozionale del cristianesimo.

Il Chayo, temuto capo eliminato dall’esercito nel 2014, si era fatto addirittura costruire una cappella in suo onore. E non è che tutti, tra gli ecclesiastici, hanno avuto il coraggio di prendere le distanze. Per paura o convenienza, alcuni sacerdoti, sono diventati confessori di sicari e cappellani dei cartelli. Comprensibile quindi l’invito rivolto dal Papa alla porzione di Chiesa radunata nel piccolo stadio per la celebrazione eucaristica. L’invito a resistere alla più demoniaca delle tentazioni, quella della rassegnazione in ambienti dominati dalla violenza e dalla corruzione, dal traffico della droga e dal disprezzo per la dignità delle persone. Una tentazione che porta a trincerarsi nelle sacrestie, a diventare sicuri funzionari del Divino, impiegati di Dio, i Checco Zalone della parrocchia.

La strada è un’altra rispetto al “posto fisso” in chiesa, e Francesco lo ha spiegato bene: fare esperienza della misericordia del Padre, come Gesù, far toccare nella carne, la vita di Dio. Insomma, il rischio dell’esperienza e l’umiltà nell’imparare a dire “Abbà”, Padre, oppure, “Tata” come si dice da queste parti.

La stessa lezione Francesco l’ha data a centinaia di migliaia di ragazzi che hanno reso rovente lo stadio Josè Marìa Morelos y Pavon di Morelia. Ci si aspettava una dura requisitoria del Pontefice contro i narcos e in parte c’è stata. Ma l’obiettivo non era la denuncia, quanto fornire di speranza una generazione in apnea. “Siete la ricchezza del Messico”, ha ripetuto più volte Francesco allo stadio impazzito, che urlava in un tripudio di colori e simboli identitari, i nomi di Maria e Gesù. La juventud del Papa era lì per vincere l’apatia e la disperazione di una realtà che non offre né opportunità, né lavoro. Giovani che non riescono a sognare, considerati nulla, merce per i signori della morte.

Il Papa non ha lanciato anatemi, ma alla domanda su cosa fare ha detto la sua unica Speranza: Gesù Cristo. L’amico da prendere per mano per andare lontano, per trasformarsi da eterna ricchezza in reale speranza. Uno con cui la vita vale la pena di essere vissuta. Lui che non vuole “sicari”, ma discepoli. Parole forti, non “schiuma da sapone”. Il coraggio di cui avevano bisogno quei ragazzi impazziti per Francisco, l’unico che guarda il cuore e accompagna i sogni dei giovani messicani. 

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