Il pubblico ministero del Tribunale di Monza, Caterina Trentini, ha respinto come infondata l’accusa di diffamazione rivolta al docente universitario e nostro collaboratore prof. Salvatore Sechi dal consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo Giuseppe De Lutiis. Egli si era ritenuto offeso da un articolo di Gian Mario Chiocci sul quotidiano Il Giornale in cui veniva sintetizzato un saggio sulla strage di Bologna e il terrorismo a firma del prof. Sechi apparso sulla rivista scientifica Nuova Storia Contemporanea. Precedentemente, per un intervento pubblicato sul Corriere della Sera, Sechi aveva ricevuto la stessa accusa dal capogruppo dei diessini presso la stessa Commissione, sen. Valter Bielli. Ma il pm del Tribunale di Forlì, Massimo De Poli, aveva emesso una sentenza di assoluzione piena perché “il fatto non sussiste”. Di recente il giudice palermitano Teresi è stato deferito alla sezione disciplinare del Csm per avere commentato in un’intervista la sentenza di assoluzione del gen. Mario Mori emessa dal suo collega Roberto Scarpinato. Su questo diffuso ricorso all’accusa di diffamazione pubblichiamo un commento del nostro collaboratore. (Ndr)
Per limitare la libertà stampa, riducendola ad un privilegio riservato ai ricchi, il mezzo più efficace è di rendere costoso il diritto di poterla esercitare.
Non credo che le cose siano cambiate da quando molti anni fa un giornalista poco compiacente e anzi irriverente come Massimo Fini sollevò questa situazione. Allora, ma anche oggi, erano i potenti di turno, cioè gli uomini politici (soprattutto di governo), gli imprenditori, i boss di mafia e camorra a minacciare querele per impedirti di fare un’inchiesta o scrivere un commento. La novità, se vogliamo chiamarla tale, è che a farti passare la voglia di sentirti libero e alzare la voce, denunciando illeciti, sono da qualche tempo i tuoi stessi colleghi.
L’arma che viene usata è quella di sentirsi oggetto di diffamazione (art. 595 del codice penale).
Questo genere di procedimento dura molti anni. Se vieni assolto anche nella misura più plateale (cioè perché il fatto non costituisce reato), il giudice non mette a carico della parte soccombente (o parte offesa) le spese legali. Poiché sono molto elevate (la più sobria è di circa 5mila euro) dovresti avviare una causa di risarcimento dei danni. Si tratta di affrontare un iter molto lungo e dall’esito incerto anche perché quanto liquida il giudice potrebbe essere (come è quasi sempre) inferiore alla notula dell’avvocato.
Il risultato è di essere indotto a prendere una decisione dolorosa: di non scrivere più. Proprio gli alti costi della difesa e la mancata rifusione di essi da parte dei giudici configurano la situazione che è sotto gli occhi di tutti: la tentazione di rinunciare all’esercizio della libertà di stampa.
Chi scrive è un docente universitario di storia contemporanea in pensione. Ha vinto pienamente due cause, sempre per il reato di diffamazione: una intentatagli dal capogruppo dei diessini alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo (sen. Valter Bielli) e l’altra dal consulente (presso le stesse commissioni) dott. Giuseppe De Lutiis. Ha dovuto, però, fare fronte ad una spesa rispettivamente di 11mila e 5mila euro per compensare i propri difensori.
Purtroppo è incappato nella disavventura di avere un avvocato che ha ritenuto di non dover presentare al magistrato la richiesta di compensazione delle spese.
Ma in entrambi i casi l’accusa di diffamazione mossami ha alimentato l’ipotesi che si volesse prevenire, intralciare o punire la mia libertà di indagare sull’azione del Kgb in Italia, sul finanziamento sovietico al Pci e sull’organizzazione da parte di quest’ultimo di un struttura paramilitare.
Se non si è ricchi e si vive — come nel mio caso — di pensione, questi costi della difesa legale della libertà di stampa incidono pesantemente sul reddito, sono cioè una causa di vero e proprio impoverimento. Rinunciare ad esercitarla diventa un cruccio che credo tutti dobbiamo porci. Chiedo a chi mi legge se non sia opportuno fare un intervento collettivo sul ministro Orlando:
1. per far introdurre nelle cause penali il principio della condanna al rimborso delle spese a carico della parte soccombente, senza dovere attivare un secondo processo,
2. per prevedere che nelle cause per diffamazione risultate infondate sia introdotta una sanzione pecuniaria elevata a carico di chi l’ha promossa,
3. per chiedere di abrogare il vincolo (stabilito dall’Ordine degli avvocati) per cui al difensore legale va corrisposta la notula da lui redatta e non la misura del rimborso stabilito dal giudice.
Far finta che questi problemi non esistano significa nascondere la testa sotto la sabbia. La libertà di stampa ha un costo che minaccia di limitare enormemente l’esercizio di questo diritto.