Viviamo in un mondo on line. Tutto quello che facciamo è costantemente oggetto di giudizio. Soprattutto se siamo attivi su Facebook e Twitter, i nostri pensieri, le nostre opinioni possono generare reazioni importanti, a volte spiacevoli. Le cronache sono piene di accadimenti che hanno avuto la loro origine sui social network. E’ recente il caso di una responsabile delle comunicazioni di una grande azienda che poco prima di imbarcarsi per un volo intercontinentale ha twittato sul suo profilo privato un commento razzista e che all’arrivo, appena riacceso lo smartphone, ha ricevuto la comunicazione del suo licenziamento. Spesso quando vengo invitata a tenere corsi di formazione con gli studenti, mi dilungo sull’importanza della gestione dei profili individuali e di come una carriera o una potenziale assunzione possano essere compromesse da quello che quotidianamente si posta. Foto, commenti, attività sono lo specchio fedele di chi siamo, tanto che i social network tracciano identikit precisi dei nostri gusti da vendere alle aziende per fare business e i direttori del personale delle imprese, prima ancora di fare un colloquio, cercano di capire online che tipo di persona si trovano di fronte. Quando parlo di queste cose, spesso, vedo facce sorprese e meravigliate e i commenti che mi arrivano sono di questo tenore: “Ma che c’entra, quella è la mia vita privata! E’ separata da quella aziendale. Sono due cose distinte”. Oppure: “Quello che faccio fuori dal lavoro, sono affari miei”. Tutto corretto. Tutto sacrosanto.



Fino a quando resta limitato alla sfera delle amicizie strette. Non divulgato da nessuno. Ma quando viene sbandierato online con tanto di foto, commenti, e condiviso decine di volte, cambia natura e diventa mediatico. Diventa cioè oggetto di comunicazione e in, quanto tale fruibile, anche da tutti gli altri che utilizzano lo stesso canale. E non sempre lo fanno con le intenzioni a noi care. Peggio ancora se all’interno dell’azienda presso la quale si lavora si esercita una funzione in qualche modo pubblica o di rilievo istituzionale. Del resto, oggi, tutto tende ad essere consumato in modo veloce e impreciso. Con giudizi feroci.



Ne ho avuto prova, recentemente, per una questione di lavoro. L’azienda per la quale lavoro è finita su molti media a causa della pubblicazione di un’indiscrezione di un giornale straniero che annunciava uno scoop clamoroso per il giorno dopo. Ora, a parte il fatto che non ho mai visto un giornalista che ha in mano uno scoop annunciarlo per il giorno seguente anziché pubblicarlo, in realtà la notizia si è rivelata una bufala, tanto che lo stesso giornale in serata si è affrettato a redigere un comunicato stampa nel quale sosteneva che “gli altri organi di informazione hanno frainteso le nostre anticipazioni”. Risultato, molti quotidiani e telegiornali di tutto il mondo hanno, comunque, ripreso la notizia (falsa) e i siti internet erano invasi da titoloni a tutta pagina. Effetto secondario, non di poco conto, il titolo perdeva più del 5% in borsa.



 In quei giorni, continuava a tornarmi in mente il bellissimo libro che avevo letto qualche tempo prima di Luca Sofri, intitolato Notizie che non lo erano, il cui sottotitolo, ancora più ficcante, era “perché certe storie sono troppo belle per essere vere”.

Sofri racconta l’evoluzione e la crisi attuale dei giornali proprio sulla basa della pubblicazione frequente di notizie false da parte dei più importanti organi di informazione italiani. La logica che sembra guidare queste scelte, infatti, non à più quella della deontologia professionale, della verifica della fonte e dell’accertamento della realtà dei fatti, quanto piuttosto quella dell’audience. Uno scandalo potenziale, una notizia allettante attira più click (maledetti click in questo caso!) anche se falsa. Di qui una gestione dell’informazione non fatta di certezze, ma di sospetti, punti interrogativi, affermazioni poi smentite che fa a cazzotti con l’immagine del giornalista serio di un tempo e fa l’occhiolino, invece, al marketing dei dati di accesso al sito. I casi riportati nel libro sono davvero impressionanti, anche perché coinvolgono le più importanti testate italiane, non i giornaletti amatoriali di sconosciuti aspiranti giornalisti. Nella prefazione Craig Silverman, fondatore di Regret the Error, il blog che registra e le smentite degli organi di informazione internazionale, sostiene: “I giornalisti oggi hanno l’obbligo e l’opportunità di setacciare la massa di contenuti che vengono creati e condivisi per separare il vero dal falso e per aiutare la diffusione della verità. Sfortunatamente, questo non è il modo in cui attualmente le imprese giornalistiche trattano le notizie non verificate, le voci che circolano online e i contenuti virali. Le falsità arrivano molto più lontano della verità e i media giocano un ruolo importante nel permetterlo”.

E’ un grido di allarme forte e che entra con prepotenza nelle nostre vite. Facendoci arrivare notizie false o divulgandole attraverso i nostri profili. Esiste una via di uscita? “Proporrei – scrive alla fine del libro Luca Sofri – di eliminare questa ipocrisia della necessità del pluralismo, fino a che lo si intende pluralismo politico o di contenuti: non sono altre opinioni diverse che ci servono, o latri racconti, ma opinioni formulate e costruite diversamente e racconti accurati e affidabili”. E ancora: “Il pluralismo che serve è quello per cui accanto a moltissima informazione sciatta, irrilevante ed egocentrica ci sia un’offerta differente, in cui allarmismo, titolismo e ricerca di un ruolo e di un posto in classifica non siano criteri prioritari con cui rivolgersi ai lettori. In cui le notizie siano, nei limiti del filosoficamente possibile, vere”.

Nel mio piccolo, vorrei non sentire più un direttore di un’agenzia dirmi (come mi è accaduto nel caso della mia azienda che citavo prima): “Non potevo non pubblicarlo. L’ho letto su internet”. Forse la rinascita dei giornali parte anche da qui. Dalla riconquista della fiducia dei lettori. Su una base di verità e professionalità. Forse lo stesso principio dovremmo cominciare ad applicarlo anche sui nostri profili social.