NEW YORK — Cracker barrel (letteralmente: “bariletto dei biscotti”) è un’espressione usata metaforicamente nell’inglese americano come attributo di un certo stile di socializzazione, tipica di quella che può (poteva) aver luogo in conversazioni informali tra vicini, dentro certi negozietti di campagna; ma nell’uso aggettivale può anche essere un epiteto razzialmente offensivo usato per designare i poveri di razza bianca. Questa espressione, nel suo senso buono, è poi diventata il titolo di una catena di “ristoranti” — in realtà, trattorie molto alla buona e molto impersonali: i “Cracker Barrel Restaurants”, tutti standardizzati (“Più di 630 in lungo e in largo per gli Usa!”, “Ce n’è uno all’uscita di ogni autostrada!”, proclama la loro pubblicità), che riflettono la nostalgia per una bonaria società rurale la quale è ormai solo un ricordo del passato (e che da noi sarebbe oggetto di qualche divagazione nostalgica in stile pasoliniano).



Che cosa ha a che fare tutto ciò con il caso di quel Jason Dalton che sembra aver ucciso a casaccio una mezza dozzina di persone a Kalamazoo nello stato del Michigan? 

Ecco, io ho tentato di descrivere invece di prescrivere; di evitare cioè le reazioni, peraltro sacrosante, che appaiono ormai come dei copia-e-incolla applicati a questi massacri-copia-e-incolla: banalità del male, circolazione impazzita delle armi da fuoco, attentati terroristici eccetera  (a proposito: “terrorismo” dovrebbe essere aggiunto a quella lista di parole, positive e negative — come “democrazia” — delle quali George Orwell già alla metà del secolo scorso denunciava un certo svuotamento di significato). Non potendo spiegare l’atto di violenza nel Michigan, e tentando di evitare le pseudo-spiegazioni, mi sono limitato a un tentativo di rappresentazione mentale dello sfondo in cui è avvenuto il massacro: tra un ennesimo “Cracker Barrel Restaurant” e un’ennesima rivendita di automobili, nell’ennesima area metropolitana (circa 300mila abitanti) che si è vistosamente allargata intorno all’ennesima piccola città americana (Kalamazoo sembra toccare a stento i 75mila cittadini).



Una volta c’erano gli sfondi visivi di Edward Hopper e gli sfondi psicologici dei racconti di Sherwood Anderson e dei drammi di Thornton Wilder — bei ricordi da musei e biblioteche che descrivono un’America semi-rustica e paesaggi urbani dotati di una loro bellezza, tra l’idillico e il dignitosamente triste; adesso, pare che in tutto questo panorama predomini l’impersonalità, la ripetitività, il rassegnato squallore. Qualunque si riveli, o non si riveli, essere il senso del massacro compiuto da Jason, parte del suo senso/nonsenso è che questa tragedia si sia consumata tra il grigiore di una tavola calda in serie e il grigiore di una rivendita di automobili — insomma, in una piattezza che può spegnere lo spirito di chi in essa vive, rischiando di farlo morire prima del suo tempo. Ed è ironicamente significativo che nelle fotografie finora disponibili Jason Dalton appaia (dico “appaia” perché sono consapevole del pericolo di certe generalizzazioni che potrebbero avere un sapore razzista) come proprio il tipo di quei bianchi poveri cui la titolazione di quei ristoranti involontariamente allude. 



Che cosa si guadagna e che cosa si perde, guardando al massacro di Kalamazoo in questa prospettiva, osiamo dire, antropologica? Il guadagno consiste (come si diceva) nel tentativo di ancorare il fenomeno alla sua concretezza, al di là delle deprecazioni generiche. Ma ciò che si perde se ci fermiamo a questa fenomenologia è il senso dell’unicità di Jason Dalton come persona, quell’unicità che coincide con la dignità umana. Viviamo — ce l’hanno già detto in molti — nel tempo del collettivismo individualistico, ovvero di quell'”ognuno per sé” che si pone come il surrogato del senso autentico della singolarità di ogni persona umana: singolarità non egocentrica perché la sua base è, in ultima  analisi, spirituale.

In questo momento, la scheda del Signor Dalton (“Mr. Dalton”, dicono, con quel rispetto delle forme che è pur sempre una forma di rispetto, i giornali americani) sta girando fra le varie banche dati che servono a costruire il “profilo ideale” di un certo tipo di omicida; e questo, naturalmente ha la sua utilità statisticamente conoscitiva. Ma questo massacro ha pur sempre un autore, e questo autore è fondamentalmente incomparabile a chiunque lo ha preceduto e chiunque (purtroppo) lo seguirà. Quanti, fra coloro che si soffermano sui mali (innegabili) dell’omologazione, sono poi disposti a seguire fino in fondo le conseguenze di un’insistenza su (e un’esplorazione di) ciò che accade quando qualcuno decide di essere veramente individuo; dunque, oltre un certo punto, “non divisibile”, non veramente condivisibile, non conoscibile, non prevedibile? Nell’individuo risiede la bellezza, ma risiede anche la possibilità dell’orrore.

E’ magra consolazione, pensare ai vari scrittori che quasi certamente in questo momento stanno gareggiando nel presentare ad agenti ed editori qualche progetto (libro-inchiesta, docu-dramma, creative non-fiction e simili) sul Signor Dalton e altri individui come lui. “Magra” perché non è d’aiuto né all’assassino né alle sue vittime. Eppure vi è in ogni scrittura più o meno letteraria una forma di “consolazione”, mentale prima di tutto, ma anche emotiva. Si tratta di un’esigenza conoscitiva che, almeno da Aristotele in poi, è stata riconosciuta come componente essenziale della natura umana. A proposito di conoscenza della situazione nella sua effettiva complessità: se il nome della cittadina suona un po’ buffo non solo a orecchie italiane ma anche ad orecchie americane (pare che i suoi abitanti non si rifiutino di scherzare sul fatto che Kalamazoo  rimi con zoo, nella  pronuncia inglese, così come del resto in quella italiana), non bisogna dimenticare che ogni luogo in America è più ricco e interessante del suo cliché. Kalamazoo è sede di un’università (da non confondersi comunque con la più prestigiosa University of Michigan ad Ann Arbor) e di due colleges; e ogni anno accoglie uno dei più importanti convegni di medievistica negli Stati Uniti. Vari elementi coesistono, dunque, e feconde contraddizioni. 

Tornando alla scrittura: che tipo di conoscenza essa può offrire se — da Truman Capote a Norman Mailer e via  dicendo, con i vari re-inventori di Dostoevskij — al rilevamento dei fatti criminali si mescola inevitabilmente una certa quantità di invenzione? La risposta è che si tratta di un tipo di conoscenza peculiare ma non indegna di questo nome; essa risponde a un’esigenza che non è soltanto retorica, ma anche etica: l’esigenza di enunciare ipotesi che soccorrano all’indispensabile lavoro della mente, per non replicare al nichilismo dell’azione con il nichilismo della ragione descrittiva.

E’ probabile che Jason, come tanti altri, cercherà di difendersi con frasi del tipo: “Non so che cosa mi abbia preso”. Ma il fatto è che lui e gli altri sanno che cosa gli ha preso; e ciò è detto non per appesantire su di essi la mano della giustizia, ma quasi al contrario: se gli assassini riuscissero a trovare le parole per esprimere anche una piccola parte di quello che comunque resterà un segreto tra loro e Dio — se riuscissero a trovare qualche parola (non dettata da altri) a questo proposito — ciò segnerebbe forse un inizio di riscatto, perché costituirebbe in qualche modo un approfondimento della loro umanità.