In un certo senso mi fanno perfino tenerezza, i ragazzi del Collettivo universitario autonomo di Bologna che ieri sono entrati sbraitando nell’aula dove il professor Angelo Panebianco stava facendo lezione, gli hanno dato dell’assassino, lo hanno accusato di avere le mani “sporche di sangue” per un articolo a favore dell’intervento armato in Libia, gli hanno gridato di andarsene dall’università.
Mi fanno tenerezza in un certo senso, intendiamoci: sono contrario alla loro azione, sono totalmente a favore della libertà per ciascuno di esprimere i propri giudizi, sono d’accordo con la studentessa che pare abbia risposto pressappoco “io pago le tasse universitarie, ho diritto di seguire la lezione, andatevene”. Però il tentativo di prevaricazione dei ragazzi del Collettivo è, in un certo senso, leale: hanno un concezione (sbagliata) della lotta politica, la praticano, ci mettono la faccia; sono disposti a pagarne le conseguenze, se davvero il professor Panebianco darà seguito all’idea di denunciarli.
Mi preoccupano molto più altre forme, più subdole, più apparentemente innocenti, di prevaricazione. Mi preoccupa che il Ceo di Twitter, Jack Dorsey, abbia creato un “Consiglio per la fiducia e la sicurezza”: con lo scopo dichiarato di permettere che “le persone possano continuare a esprimersi liberamente e con sicurezza”, si accinge a stilare una lista di proscrizione di cose che su Twitter non si potranno più scrivere.
Come ha scritto qualche settimana fa sul Foglio Maurizio Crippa, «un tasso di correttezza politica, o meglio di polizia del linguaggio, sta uccidendo la libertà di dissentire. C’è un’impossibilità del “diritto di cittadinanza” nel dibattito. L’hate speech, le parole che non possono essere dette perché un’opinione di maggioranza o addirittura la legge lo vietano è una realtà che nelle società anglosassoni sta riducendo i termini della discussione solo alle sue frange estreme. In Italia la situazione non è troppo diversa, a guardarla con disincanto: chi è contro la Cirinnà è omofobo, se sei contro l’eutanasia fai soffrire i malati».
Del resto, lo aveva annotato più di mezzo secolo fa Orwell in 1984: non c’è sistema più efficace per far sparire un’idea dalla testa dei cittadini che impedire che venga pronunciata la parola corrispondente; o, in alternativa, dare alle parole ineliminabili un significato diverso, piegato alla convenienza del potere. Del resto, lo aveva proclamato nero su bianco Rousseau nel suo Emilio, il manifesto di tutta la propaganda moderna: «Non v’è soggezione tanto perfetta quanto quella che conserva tutte le apparenze della libertà: la sua stessa volontà viene così a essere nelle vostre mani. Indubbiamente [Emilio] non deve fare se non ciò che vuole, ma non deve volere se non ciò che voi volete».
Lo sapevano già i sofisti duemila e cinquecento anni fa: se non c’è nessuna verità, vero è ciò di cui l’oratore più abile riesce a convincere il pubblico.
In un certo senso, dunque, i ragazzi del Collettivo sono ancora onesti, almeno ci mettono la faccia; i più pericolosi sono gli altri, i più sleali, che si nascondo dietro i trucchi dialettici (e che, oggi come ai tempi delle Brigate rosse, preparano il terreno per gli attacchi più direttamente violenti). Inevitabilmente, torna alla mente l’avvertimento di san Paolo ai cristiani di Colossi: «Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri»…