I ministri degli Esteri di Italia e Francia siglano un accordo internazionale sulla nuova delimitazione dei confini marittimi il 21 marzo 2015. Il Parlamento francese ratifica rapidamente, quello italiano ancora neanche lo porta in votazione alle proprie camere. La polizia transalpina lo applica immediatamente, sequestrando un peschereccio ligure e cacciando indietro uno sardo, entrambi rei di transitare nelle acque da sempre utilizzate per pescare gambero rosso e pesce spada. Se non fosse successo questo duplice episodio, le marinerie sarde, liguri e toscane non avrebbero mai saputo dell’accordo. Ma neanche le corrispondenti istituzioni regionali e locali risulta fossero state informate dopo e, soprattutto, prima della firma dell’accordo.



Sul piano strettamente giuridico la questione sembrerebbe semplice: senza la ratifica del Parlamento italiano, l’atto è inefficace. Le autorità francesi sono costrette a chiedere scusa. Il Governo italiano, chiamato a rispondere alla Camera, assicura di voler tutelare gli interessi dei pescatori. La discussione in sede parlamentare avrà utili spunti per proporre modifiche. Ma non è così.



L’atteggiamento del Governo italiano e del partito che ne esprime il Presidente è sbalorditivo. A parte lo zelo encomiabile di una parlamentare europea del Pd (Renata Briano) e di un deputato italiano del gruppo misto (Mauro Pili), gli esponenti del Partito democratico hanno scelto inizialmente di osservare un imbarazzato silenzio. Alcuni di loro hanno ammesso, sotto la garanzia dell’anonimato, di avere ricevuto dal partito pressanti raccomandazioni finalizzate a tacere e sopire, placare e rassicurare gli animi dei rappresentanti delle organizzazioni imprenditoriali, che protestavano per il fatto che un’intesa così gravida di conseguenze per una delle attività produttive più rinomate nel nostro Paese fosse stata chiusa senza provare a calcolarne gli effetti. Alcuni, invece, sono usciti allo scoperto per accusare di ingiustificato protagonismo Pili. Ciò che conta e preoccupa è l’ordine del giorno approvato dalla maggioranza governativa, nel cui testo finale sono state cancellate le parole “al fine di apporre modifiche” all’accordo, mentre è rimasto un generico impegno a difendere le attività di pesca.



Quanta circospezione, quanta prudenza, ma soprattutto quanta opacità nel difendere un testo e una carta geografica che impietosamente mostrano la cessione di aree marittime, che non sarebbero più acque internazionali utilizzabili da tutti, per essere annesse alla sovranità di uno Stato confinante. Giustamente l’eurodeputata ligure ha sollevato l’interrogativo riguardo al rispetto delle regole del diritto internazionale e della competenza dell’Unione europea in materia di difesa delle risorse ambientali e naturalistiche. Ma, al di là della forma, altre domande si pongono. Il Nostro Mare ha limiti naturali molto ristretti e se le acque territoriali dei singoli stati si estendono, ben poco rimane per quelle libere da privilegi particolari. E un’altra domanda meriterebbe risposta da chi ha trattato e poi siglato l’accordo: che significato ha l’accenno ai “giacimenti sui fondali” non ancora sfruttati nel Mediterraneo di cui si trova traccia nelle dichiarazioni rese in Parlamento dal rappresentante del ministero degli Esteri? Solo gamberi, pesci spada e tonni suscitano l’appetito transalpino?

La risposta non è stata data nei dettagli, ma la nostra attenzione non può non andare a un punto dell’accordo in cui si legge: “Se un giacimento di risorse naturali si estende su entrambi i lati di delimitazione della piattaforma continentale e se le risorse situate su un lato di questa linea possono essere sfruttate da impianti situati sull’altro lato, le parti cercano di accordarsi sulle modalità di valorizzazione di tale giacimento nel modo più efficace possibile”.

Nessuno di noi credo possa accettare che mentre nel Bel Paese si discute ampiamente di riforme e di “questioni etiche”, e mentre il Premier rivendica rumorosamente spazi di sovranità minacciati dagli stati forti dell’Eurozona, alcuni ministeri siano silenziosamente dediti a smantellare e svendere un settore industriale come quello della chimica (vedi il caso Eni-Versalis), depotenziare il sistema bancario a partecipazione popolare, destrutturare il modello automistico delle regioni e sacrificare attività produttive tradizionali, come quelle della pesca, sull’altare di spericolate trattative sullo sfruttamento di fonti energetiche fossili, su cui si gioca purtroppo il destino di molti popoli.